La violenza del colonialismo italiano
L’Italia in Etiopia e Libia
Uno studio documentato dei crimini contro i civili commessi durante l’occupazione italiana della Libia e dell’Etiopia, ignorati per lungo tempo dalla storiografia e nel dibattuto pubblico nazionale.
Il mito degli “italiani brava gente”
Per molto tempo lo studio dei crimini italiani nelle colonie si è concentrato sugli anni del fascismo e sulla conquista dell’Etiopia. Solo nell’ultimo decennio del Novecento si è cominciato a riflettere sull’intera vicenda coloniale italiana, compresa quella dell’epoca liberale, per coglierne continuità e differenze rispetto al regime mussoliniano. L’attenzione si è pertanto rivolta anche all’occupazione della Libia. Se oggi questo capitolo vergognoso della storia del nostro paese può essere studiato, gran parte del merito va ad Angelo Del Boca, il primo studioso ad aver messo in luce nel volume Italiani, brava gente? i crimini della conquista coloniale nostrana in aperto contrasto con quello che per molto tempo è stato considerato il mito degli “italiani brava gente”, portatori di un colonialismo in fondo bonario, incapace di brutalità.
Le violenze in Libia
Già nei primi anni di occupazione della Libia, l’esercito italiano si rese responsabile di una serie di eccidi a danno di civili classificabili come crimini di guerra. Tuttavia è a partire dal 1922 che, per “riconquistare la Libia”, non limitando il possesso coloniale alle aree urbane, gli occupanti attuarono una violenta strategia militare che assunse carattere di genocidio. Nel gennaio 1928 fu dichiarato lo stato di guerra in Cirenaica e in Tripolitania, ed è in queste regioni che si è trovata la documentazione circa il frequente impiego di armi chimiche da parte delle forze armate italiane. La cosiddetta <<pacificazione del territorio libico>> fu spesso ottenuta con la deportazione della popolazione al fine di separarla dai guerriglieri. A tale scopo l’esercito italiano impiegò campi di concentramento analoghi a quelli creati dagli inglesi nella guerra anglo-boera. La violenza verso i civili crebbe vertiginosamente a partire dal 1930, allorché vicegovernatore della Libia divenne il generale Rodolfo Graziani. Il nuovo vicegovernatore considerava tutti gli abitanti della Cirenaica come ribelli e nemici da estirpare a ogni costo, anche ricorrendo a forme estreme di violenza. Con queste premesse, il confine tra azioni militari, politiche e sociali era destinato a perdersi come è norma di un regime totalitario.
Marce forzate e campi di concentramento
Così Graziani fece costruire un muro di filo spinato lungo 270 chilometri per bloccare gli aiuti alla resistenza antiitaliana dall’Egitto, ma fu soprattutto l’esperienza dei campi di concentramento ad assumere un carattere di genocidio. La popolazione imprigionata, in prevalenza di origine nomade o seminomade, venne sottoposta a violenze e condizioni di vita durissime, che provocarono la morte di decine di migliaia di persone. Circa 100.000 individui, in prevalenza donne, bambini e anziani, furono costretti a una marcia forzata di oltre 1000 chilometri nel deserto verso una serie di campi di concentramento costruiti nei pressi di Bengasi. Chi non riusciva a tenere il passo veniva fucilato sul posto; molti, in particolare donne e bambini, furono abbandonati nel deserto, altri ancora perirono per fustigazioni, fame o fatica. Secondo le cifre ufficiali, 90.761 civili furono rinchiusi in 13 campi nella regione centrale della Libia.
La propaganda del regime fascista dichiarava che i campi erano “oasi di civilizzazione” gestite in modo efficiente, ma le condizioni erano del tutto precarie poiché, in media, 20 000 beduini erano internati insieme agli animali in un’area di 1 chilometro quadrato. I campi avevano servizi medici quanto mai approssimativi: 1 medico ogni 30 000 reclusi! Il tifo e altre malattie si diffusero rapidamente tra individui indeboliti da razioni alimentari insufficienti e dal lavoro forzato.
Le testimonianze dei sopravvissuti
In Italiani, brava gente? Del Boca riporta le testimonianze di alcuni sopravvissuti: <<Ci davano poco da mangiare>>, riferì un recluso, <<dovevamo cercare di sopravvivere con un pugno di riso o di farina e spesso si era troppo stanchi per lavorare>>. Raccontò una reclusa: <<Le nostre donne dovevano tenere un recipiente nella tenda per fare i loro bisogni. Avevano paura di uscire. Fuori rischiavano di essere prese […] dagli italiani>>. <<Ogni giorno uscivano dal campo cinquanta cadaveri>>, narrò un altro prigioniero, <<venivano sepolti in fosse comuni. Cinquanta cadaveri al giorno, tutti i giorni. Li contavamo sempre. Gente che veniva uccisa. Gente impiccata o fucilata. O persone che morivano di fame e di malattia>>. Quando i campi furono chiusi, nel settembre 1933, vi avevano perso la vita non meno di 40 000 persone. Storici libici hanno rilevato nell’operato italiano una volontarietà violenta derivante non solo da un’ideologia coloniale e razzista, ma esplicitamente anti-nomade e anti-beduina, e da questa constatazione sono partiti per muovere le prime accuse di genocidio al governo italiano.
All’attacco dell’Impero etiope
Nel 1935 Mussolini dichiarò guerra all’Etiopia affermando di voler porre fine alla schiavitù che ancora vi si praticava. Si trattava, però, di un’aggressione non provocata a un paese membro della Società delle Nazioni, che costò all’Italia pesanti sanzioni economiche internazionali. Per condurre una guerra in linea con le esigenze di prestigio mondiale e di consolidamento interno del regime, in previsione dell’intervento militare venne mobilitata la macchina della propaganda fascista per far sì che il paese tornasse a interessarsi delle questioni coloniali. Si giustificò la guerra con i temi classici del colonialismo: l’inferiorità della popolazione etiope, la necessità per gli italiani di terre da coltivare, la missione civilizzatrice a cui era chiamata l’Italia nell’era nuova iniziata con la nascita del regime fascista.
La violenza coloniale in Etiopia
Condotto dal generale Emilio De Bono, poi rimpiazzato dal maresciallo Pietro Badoglio, l’esercito italiano invase l’Etiopia dalla colonia eritrea a nord e dalla Somalia a sudest. Contravvenendo al Protocollo di Ginevra sottoscritto dall’Italia nel 1925, furono usate armi chimiche sin dalle prime fasi del conflitto: giunsero in Eritrea 270 tonnellate di aggressivi chimici per l’impiego ravvicinato, 1000 di bombe caricate a iprite per l’aeronautica e 60 000 granate caricate ad arsina per l’artiglieria. All’aviazione fu ordinato di utilizzare il gas su larga scala, irrorandolo sui soldati e sui civili con sorvoli a bassa quota, allo scopo di terrorizzare la popolazione e spezzarne ogni resistenza. Nell’aprile 1936 il famigerato Rodolfo Graziani diede inizio all’offensiva da terra su Harar, dopo aver gassato e bombardato per un mese la difesa etiope. Il vescovo cattolico di Harar scrisse ai suoi superiori in Francia: <<Il bombardamento che gli italiani hanno fatto contro la città è un atto barbaro che merita la maledizione del Cielo>>.
In maggio Mussolini proclamò la nascita dell’impero e investì Graziani del triplice incarico di viceré, governatore generale e comandante superiore delle truppe. Il 5 giugno e l’8 luglio gli telegrafò i seguenti ordini: <<Tutti i ribelli fatti prigionieri devono essere passati per le armi>> e <<Autorizzo ancora una volta V.E. a iniziare e condurre sistematicamente politica del terrore et dello sterminio contro i ribelli et le popolazioni complici stop. Senza la legge del taglione a decuplo non si sana la piaga in tempo utile. Attendo conferma>>.
Le repressioni di Graziani
Il 19 febbraio 1937 ad Addis Abeba Graziani rimase vittima di un fallito attentato ai suoi danni. La repressione che ne segui colpì indistintamente civili innocenti. Il giornalista Ciro Poggiali, inviato speciale del Corriere della Sera in Etiopia riferiva: <<Tutti i civili che si trovano in Addis Abeba hanno assunto il compito della vendetta, condotta fulmineamente coi sistemi del più autentico squadrismo fascista. Girano armati di manganelli e di sbarre di ferro, accoppando quanti indigeni si trovano ancora in strada. Vedo un autista che, dopo aver abbattuto un vecchio negro, gli trapassa la testa da parte a parte con una baionetta. Inutile dire che lo scempio si abbatte contro gente ignara e innocente>>.
Due giorni dopo l’attentato, Graziani scriveva a Mussolini: <<Dal giorno 19 at oggi sono state eseguite trecentoventiquattro esecuzioni sommarie, tuttavia con colpabilità sempre discriminata e comprovata (ripeto trecentoventiquattro). Ho inoltre provveduto a inviare nel campo di concentramento esistente fin dalla guerra numero millecento persone fra uomini, donne e ragazzi>>. A fine mese le vittime erano tra 1400 e 6000 (secondo fonti inglesi e francesi), 30 000 secondo gli etiopi. Ritenendo che i responsabili dell’attentato fossero stati ospitati nel monastero copto di Debre Libanos, a nord di Addis Abeba, Graziani ordinò il massacro di tutti i monaci e degli studenti ritenuti corresponsabili. Secondo i dati ufficiali dei telegrammi inviati al duce, morirono 297 monaci e 23 laici; tuttavia, studi recenti hanno ipotizzato un numero di vittime molto maggiore (1400-2000 persone). Il massacro dei religiosi fu all’origine della rivolta nei territori etiopi del Lasta, che Graziani nei mesi successivi soffocò nel sangue, accompagnando la violenza con queste parole: <<La rappresaglia deve essere effettuata senza misericordia su tutti i paesi del Lasta […] Bisogna distruggere i paesi stessi perché le genti si convincano della ineluttabile necessità di abbandonare questi capi […] lo scopo si può raggiungere con l’impiego di tutti i mezzi di distruzione dell’aviazione per giornate e giornate di seguito essenzialmente adoperando gas asfissianti>>.
Un vergognoso oblio
L’avventura coloniale italiana si concluse ancor prima della fine del regime fascista e l’impero tramontò definitivamente nel 1943. Eppure, l’opinione pubblica e la classe politica repubblicana hanno a lungo dimenticato i crimini commessi dal nostro esercito. Le violenze frutto dell’occupazione in Libia ed Etiopia, le politiche e gli atti oggi definibili come genocidio, le repressioni e le violenze compiute sono rimaste oggetto di un oblio e di un esercizio revisionistico tra i più vergognosi dell’età contemporanea. Ancora pochi anni fa, la Regione Lazio valutava la possibilità di investire denaro pubblico per la costruzione di un mausoleo in onore di Rodolfo Graziani ad Affile (Roma), sua città natale, e dal 2006 giace in Parlamento una sempre ignorata proposta di legge per l’istituzione di una giornata commemorativa delle vittime del colonialismo italiano in Africa..
Per saperne di più
Con Michele Pellegrini, Roberto Roveda è autore di Genocidi. Dall’antichità al mondo contemporaneo (Le piccole pagine, 2024), dove si può trovare un approfondimento di questo argomento. Il volume ricostruisce una storia dei genocidi, anche con riferimento alla definizione giuridica e alla sociologia, che sono stati pianificati in diversi periodi storici e in diversi paesi del mondo. Obiettivo del saggio è quello di indagare le motivazioni alla base della volontà di distruggere un particolare gruppo umano per ragioni di appartenenza etnica, sociale o religiosa.
- Angelo Del Boca, Italiani, brava gente?, Neri Pozza, 2005
- Gli italiani in Africa Orientale, vol. II: La conquista dell’Impero, Mondadori, 2009
- Carlo Greppi, storie che non fanno la Storia, Laterza, 2024
- Nicola Labanca, La guerra italiana per la Libia 1911-1931, il Mulino, 2012
In copertina: Truppe italiane invadono L’Etiopia, 1936, cartolina di propaganda coloniale © Imageselect/ WHA Import/ World History Archive.