Shoah. L’amore come forma di resistenza

Storie d’amore e di coraggio nei campi di sterminio e nei campi profughi dopo la liberazione

Alcuni testimoni, usciti dai campi di concentramento e sterminio, raccontarono che per mesi nel cielo sopra di loro non avevano visto volare nemmeno un uccello. Durante la Seconda guerra mondiale, nei ghetti dell’Europa orientale, nei nascondigli precari, nei campi della Shoah, la vita e la speranza sembravano del tutto bandite, specie per gli ebrei: in quei luoghi ci si sarebbero potuti aspettare soltanto morte e disperazione, e l’assenza di un sentimento così speranzoso, così rivolto al futuro, come lo è l’amore.

La più potente forma di resistenza all’annientamento

I racconti dei sopravvissuti, i diari degli uccisi, magari ritrovati dopo decenni, ci dicono invece che l’amore continuò a sbocciare anche dove c’erano la fame, la mortificazione dei corpi, il pericolo estremo, i divieti: e che fu una forma potente di resistenza all’annientamento fisico e psicologico, sia durante, sia appena dopo la Shoah. I dati raccontano che dopo la liberazione il tasso di matrimoni e di natalità più alto del mondo si ebbe negli ex campi di concentramento, trasformati in campi profughi per gli ebrei superstiti: a Bergen Belsen, nel nord della Germania, nel 1946 ci furono in media 6-7 matrimoni al giorno (nei primi tempi addirittura 20 al giorno), e in cinque anni vi nacquero ben 2000 bambini. Era la vita che riaffermava se stessa, e in modo incredibile, se si pensa alle condizioni psichiche ma anche fisiche di quelle donne al momento della liberazione: molte erano scheletriche, malate, non avevano più le mestruazioni da mesi, anni, e alcune erano state sottoposte a esperimenti dai medici nazisti, o rese deliberatamente sterili.

I matrimoni nei campi profughi

A sposarsi erano coppie di giovani, di persone che erano rimaste completamente sole al mondo e che vedevano nella creazione di una nuova famiglia l’unica possibilità di tornare a un’esistenza normale: in alcuni casi però l’amore sbocciò tra le sopravvissute e i soldati che le avevano liberate.
Le foto di quei matrimoni – non di rado si fecero cerimonie di gruppo – mostrano la totale assenza di ospiti e testimoni più anziani, mancano i genitori degli sposi, gli zii, i nonni. Erano cerimonie in parte gioiose e in parte molto tristi, le spose si davano da fare per avere un bell’aspetto, furono confezionati abiti con pezzi di paracadute e cappelli con le garze e le bende dell’infermeria, si ricavarono anelli dalle posate. C’era il problema di coloro che erano già stati sposati, ma dopo essere stati arrestati non avevano saputo più nulla dei coniugi, se fossero vivi o morti, e dove fossero finiti. Avere notizie era talmente difficile che i rabbini chiamati a celebrare in alcuni casi fecero aggiungere una clausola ai contratti matrimoniali: se il coniuge dato per morto fosse ricomparso, il nuovo matrimonio sarebbe stato annullato.
Finora abbiamo parlato degli amori nati dopo la liberazione, e certamente favoriti dall’anelito vitale, da un bisogno di normalità. Ma i sentimenti continuarono a sbocciare, contro qualunque aspettativa, anche nelle condizioni più estreme. Questi amori romantici, pericolosi, potentissimi, rocamboleschi, nati in luoghi come Auschwitz o come i ghetti, tra le punizioni e le fucilazioni, a volte si conclusero tragicamente, a volte la storia d’amore naufragò nel caos del dopoguerra, ma non mancarono le conclusioni liete.

Un amore reso famoso da Steven Spielperg

Una di queste storie a lieto fine è diventata celebre, a distanza di molti anni. Il matrimonio tra Joseph Bau e Rebecca Tannenbaum, celebrato in gran segreto (con anelli ricavati da un cucchiaio che Joseph aveva ottenuto cedendo razioni della scarsissima zuppa) nel campo di Cracovia-Plaszow, il cui comandante era il sadico Amon Goeth, ha finito per essere visto da milioni di persone. Non nella sua versione reale ma in quella cinematografica, perché Rebecca e Joseph li troviamo nel film di Spielberg Schindler’s List. Rebecca era l’addetta alla manicure di Goeth, e sfruttava la sua posizione per fare la spia antinazista: riusciva a sapere in anticipo quel che sarebbe successo nel campo. Ciò che si è saputo dopo l’uscita del film è che Rebecca salvò la vita del marito, anteponendola alla propria, ma non rivelò questo eroico dettaglio se non a tarda età. Il nome di Rebecca era sulla lista di Schindler, ovvero quella di coloro che sarebbero stati sottratti alla morte, ma lei riuscì a convincere il deportato che l’aveva compilata a togliere il nome “Tannenbaum Rebecca” e a inserire al suo posto quello di “Bau Joseph”. Perché lo aveva fatto? Perché temeva che il suo amato potesse morire, e perché si riteneva la più adatta dei due alla sopravvivenza nell’inferno di Plaszow. I Bau dopo la liberazione emigrarono in Israele, ebbero due figlie, e Joseph, che era un artista - e che nel periodo in cui era stato rinchiuso nel ghetto di Cracovia aveva salvato moltissime persone confezionando documenti falsi perfetti - diventò “il Walt Disney ebreo”.
Quella di Rebecca e Joseph è una storia d’amore e di coraggio e di altruismo, perché se Rebecca si sacrificò per Joseph, Joseph si sacrificò rimanendo nel ghetto quando avrebbe potuto confezionare per sé dei documenti falsi e fuggire, scampando la deportazione: non lo fece perché se se ne fosse andato non avrebbe più potuto aiutare gli altri, e per questo finì a Plaszow.

Le trentanove rose rosse di Jerzy

Rebecca e Joseph vissero dunque a lungo, insieme. Un’altra storia clamorosa e intrisa di eroismo ebbe una conclusione diversa, e gli innamorati si ritrovarono solo moltissimi anni dopo. L’amore di solito sbocciava tra ebrei, che sentivano di avere un passato e un destino condivisi (e sì, non vi furono soltanto amori tra uomini e donne, ma anche tra persone dello stesso sesso, seppure molto meno note), però vi furono eccezioni. Jerzy Bielecki era un antinazista polacco cattolico, un membro della Resistenza, e fu arrestato nel 1940 nei pressi del confine ungherese mentre tentava di raggiungere la Francia per unirsi all’esercito polacco che lì si era ricostituito. Lo mandarono ad Auschwitz, campo che era stato aperto da poco: fece parte del primo convoglio di deportati. Lì nel 1943 arrivò una giovane ebrea polacca, Cyla Cybulska, unica superstite di tutta la sua famiglia. I due nonostante i divieti e l’onnipresenza delle guardie riuscirono a innamorarsi con occhiate e le poche parole scambiate in segreto. Jerzy capì che Cyla era destinata a morire, e la disperazione lo spinse a concepire un piano in apparenza folle. Le fughe da Auschwitz erano praticamente impossibili: negli anni in cui il campo fu in funzione, su un milione e trecentomila deportati solo 928 (878 uomini, 50 donne) osarono tentare la fuga, e 196 furono coloro che ce la fecero. La più clamorosa di queste fughe riuscite fu quella di Walter Rosenberg e Fred Wetzler, due giovani ebrei che studiarono per mesi il modo di evadere perché volevano raccontare al mondo cosa stava succedendo ad Auschwitz. Nel 1944 il loro piano ebbe successo, e dopo aver valicato montagne, attraversato fiumi e paludi nella Polonia occupata, tornarono in Slovacchia, da cui fecero partire un rapporto di 32 pagine, che alla fine giunse sulle scrivanie di Winston Churchill, di Franklin D. Roosevelt e del papa.
Anche Jerzy ci riuscì, e riuscì a portare fuori la sua amata. Rubò una divisa da SS, entrò nell’edificio dove Cyla era al lavoro forzato e abbaiò il suo nome, con accento tedesco, fingendo di doverla portare via per un interrogatorio. I due varcarono così i cancelli, nessuno si accorse che quel giovane “nazista” aveva un numero tatuato sul braccio. Camminarono per giorni, nascondendosi nei boschi e muovendosi nel buio, quando Cyla crollò esausta Jerzy se la caricò in spalla. Arrivarono a casa di uno zio di Jerzy, Cyla la nascosero lì e lui andò con i partigiani. Ma quando Jerzy, finita la guerra, tornò a casa per riunirsi alla fidanzata, non la trovò più. Per un equivoco le avevano detto che lui era morto, e così Cyla (che era stata liberata dal nascondiglio tre settimane prima) disperata era partita per gli Stati Uniti, dove raggiunse uno zio.
Jerzy e Cyla non seppero più nulla l’uno dell’altra per 39 anni, condussero vite separate, finché un giorno del 1983 Jerzy non raccontò la propria storia alla televisione polacca, Cyla lo venne a sapere in modo del tutto casuale e capì che si trattava del suo vecchio amore – e del suo salvatore. Quando si rividero, lui l’accolse all’aeroporto con 39 rose rosse, tante quanti erano stati gli anni della loro separazione. Nel 1985 l’istituto Yad Vashem di Gerusalemme riconobbe a Jerzy il titolo di Giusto tra le Nazioni.

Aliza, Ovadia e i loro figli

Un’altra storia di amore nata nei campi, diventata famosa perché i suoi protagonisti furono per anni molto attivi nel perpetuare il ricordo della Shoah, è quella tra Ovadia Baruch e Aliza Zarfati, deportati ad Auschwitz da Salonicco, in Grecia. Non si erano mai incontrati prima, ma un giorno ad Auschwitz Aliza, che era giovane e forte e sfruttata come lavoratrice in un magazzino per il grano, sentì una voce maschile implorare “Madre! Madre!” e subito capì che si trattava di un greco come lei, che mentre lo massacravano di frustate per aver rubato della zuppa invocava la mamma in ladino, la lingua degli ebrei di Salonicco. Turbata e commossa fece di tutto per riuscire ad avvicinarsi al ragazzo sanguinante, e per entrambi fu un colpo di fulmine. Ma quando, tornati a casa dopo essere sopravvissuti (all’insaputa l’uno dell’altra) alla marcia della morte, lui le chiese di sposarlo, come si erano ripromessi ad Auschwitz, lei inizialmente rifiutò, in lacrime, rivelandogli che mentre era ad Auschwitz era stata sottoposta a esperimenti medici, le avevano asportato le ovaie, e dunque non era più grado di dare a Ovadia una famiglia. Acconsentì solo dopo infinite rassicurazioni da parte di Ovadia, che le garantì di non volere figli. Quello che i due sposi non sapevano era che uno dei medici ebrei che ad Auschwitz erano costretti a rendere infertili le prigioniere, il dottor Maximilian Samuels, aveva solo finto di eseguire l’operazione, aprendole l’addome e poi richiudendolo, come faceva spesso (si scoprì poi che aveva sabotato parecchi esperimenti, e salvato molte donne). Aliza e Ovadia emigrarono in Israele, ebbero per loro enorme gioia due figli e trascorsero insieme tutta la vita

Testimonianze e materiale in rete
  • Sul canale You Tube dell’istituto Yad Vashem di Gerusalemme è possibile ascoltare le testimonianze dei protagonisti delle storie citate, e di numerose altre. Molto toccanti anche le riflessioni sulla maternità della sopravvissuta ai campi Shoshana Roshkovski, che trovate sempre sul canale (le interviste sono spesso in ebraico, ma sottotitolate in inglese).
  • Altro materiale sul tema dell’amore come forma di resistenza è reperibile sul canale You Tube dell’United States Holocaust Memorial Museum: si segnala in particolare la lezione intitolata Acts of Resistance: Love Stories of the Holocaust.
  • Sulla vicenda dell’artista-falsario Joseph Bau e di sua moglie Rebecca si trovano in rete parecchi articoli e interviste rilasciate dalle loro figlie Clila e Hadassa. Il Johannesburg Holocaust & Genocide Centre ha caricato su You Tube un lungo filmato dal titolo Jews who saved Jews: Rebecca & Joseph Bau and the Schindler connections.

Referenze iconografiche:   Matrimonio in un campo di concentramento liberato (documentazione fotografica della British Army)
© piemags/ww2archive /Alamy Foto Stock

Marina Morpurgo

Ex giornalista, scrittrice e traduttrice, ha lavorato per quattro anni al Centro di Documentazione Ebraica Contemporanea di Milano. Per Sanoma (Edizione Scolastiche Bruno Mondadori) è coautrice con Alessandro Marzo Magno e Dino Carpanetto del nuovo corso di storia per la Scuola secondaria di primo grado Tutto è storia, 2025.