La definizione dell’Onu
La Dichiarazione sull’eliminazione della violenza contro le donne, adottata dall’Assemblea generale dell’Onu nel 1993, afferma che tale violenza
è una manifestazione delle relazioni di potere storicamente disuguali tra uomini e donne, che ha portato alla dominazione e alla discriminazione contro le donne da parte degli uomini e ha impedito il pieno avanzamento delle donne.1
Con ciò si indica chiaramente che, pur nella diversità delle forme nel tempo e nello spazio, la subordinazione delle donne agli uomini ha avuto anche nella violenza uno dei suoi tratti caratterizzanti a cominciare dalla sfera privata, come può mostrare l’analisi in prospettiva storica della violenza coniugale.
Se quindi nella violenza di genere si ritrovano alcuni elementi comuni alle forme di violenza presenti in molte società e culture (agli individui oggetto di violenza si attribuisce uno status inferiore, spesso legato al possesso della persona e se ne producono rappresentazioni che occultano la persona reale), nel caso delle donne si aggiunge la gerarchia e il dominio che caratterizzano le relazione tra i sessi in una determinata società e in un determinato contesto storico.
Interrogare la dimensione storica della violenza di genere è, quindi, fondamentale per cercare di comprenderne i tratti costitutivi. Bisogna, peraltro, essere consapevoli che sussistono molte difficoltà nel rilevare la misura degli abusi sulle donne nelle tracce lasciate dalle società del passato, mentre è stato relativamente più semplice esplorare i discorsi che pensatori, giuristi e intellettuali hanno via via prodotto su di essi.
Il mondo antico e i primi secoli del cristianesimo
Sin dall’antichità i ruoli sessuali si strutturano su base gerarchica, teorizzati e codificati come prodotto di un ordine naturale, di cui la casa e la società dovevano essere specchio. Il pensiero dei più influenti filosofi greci, in particolare di Aristotele, veicolava tali concezioni, mentre nelle poleis le donne vivevano sostanzialmente prive di qualsiasi cittadinanza. Fu proprio Aristotele, in particolare, a fornire alla cultura europea le più radicate argomentazioni dell’inferiorità femminile. Secondo la fisiologia aristotelica e poi galenica2, infatti, la polarità maschile/femminile è associata organicamente all’opposizione attivo/passivo. Giuristi e medici di diverse scuole concordano nel ritenere che nel rapporto sessuale spetti all’uomo la parte attiva, mentre alla donna quella passiva.
Anche nella Roma antica, come in Grecia, la necessità di garantire la discendenza in linea maschile poteva diventare motivo di esercizio di violenza sulle donne ai fini di controllo sul corpo femminile, secondo un’esigenza tipica, appunto, delle società di tipo patriarcale. L’organizzazione sociale sanciva nel diritto i poteri del pater familias, considerato titolare di vita e di morte sui componenti del nucleo familiare, mentre gli stupri di massa potevano essere usati come un’arma bellica tra le altre (cfr. fonte 1).
La diffusione della cultura cristiana non cambia la situazione complessiva, nonostante gli aspetti innovativi del messaggio evangelico; essa contribuisce anzi a trasmettere l’organizzazione familiare romana e offre nuovi strumenti teorici sull’inferiorità femminile, come il concetto di infirmitas sexus (infermità, e quindi impedimento, dovuta al sesso). Gli autori cristiani confermano l’imperfezione e l’insufficienza della natura della donna attraverso l’interpretazione di alcuni passi biblici e di passi delle lettere paoline3, che stabiliscono la sottomissione delle mogli ai mariti. Si distingue l’uguaglianza uomo-donna nell’ordine della salvezza dalla disuguaglianza dei sessi nell’ordine della natura, da intendersi pure come volontà di Dio. Tanto che secondo S. Agostino4 il modello per eccellenza della moglie cristiana è la madre Monica, che accetta anche la violenza del marito in vista della sua redenzione; a sua volta San Tommaso5 riprende l’antropologia aristotelica e descrive la donna come “maschio mancato”.
Dal Medioevo all’età moderna
In età medievale, le classi sociali più elevate e le corti erano orientate alla salvaguardia dell’istituzione matrimoniale e del patrimonio familiare e non delle esigenze individuali. Nel diritto medievale, infatti, il corpo femminile è spesso descritto come un bene patrimoniale, su cui si esercita l’autorità del marito.
Come già durante il Medioevo, anche in età moderna il diritto contempla in genere la legittimità di un certo grado di violenza nei rapporti coniugali e familiari, come anche nella relazione amorosa. Il ruolo assolutamente preminente del marito e la legittimità della violenza maritale sono tanto radicati da essere introdotti anche nei contesti coloniali (per Spagna, Olanda, Francia, l’Inghilterra).
La società europea in questi secoli è caratterizzata da grande conflittualità e instabilità, che favoriscono la diffusione della violenza tra gruppi e nelle relazioni sociali in genere. In ogni caso la violenza sulle donne non doveva superare la soglia che l’avrebbe resa pericolosa per l’ordine familiare e sociale, ritenuti tra loro strettamente collegati. Solitamente, le donne non ricorrevano ai tribunali per la sanzione degli atti di violenza, quanto piuttosto per ottenere la loro interruzione, oppure per costringere il marito a garantire il mantenimento della famiglia, o ancora per avere la restituzione della dote, in caso di separazione.
Dal Settecento al Novecento
Dal XVIII secolo, e in particolare dalle Rivoluzioni americana (1776) e francese (1789), la storiografia segnala l’inizio di un cambiamento nella tolleranza verso la violenza contro donne. Tra le élite dell’aristocrazia illuminata e della borghesia si diffondono nuove concezioni di famiglia e anche nuovi modelli di mascolinità, che ridefiniscono le gerarchie familiari e sociali. Con sempre maggiore chiarezza, infatti, si mostrano tracce di una crescente sensibilità nei confronti della violenza coniugale e di una tendenza a paragonare tale violenza a comportamenti tipici dei ceti ritenuti inferiori e quindi non più giustificabile. Si tratta di cambiamenti che si ritrovano soprattutto nelle riflessioni teorico-letterarie e nei discorsi, più che nella pratica quotidiana, ma ciò segnala l’inizio di un processo di lungo periodo che concerne un progressivo miglioramento delle condizione delle donne nella famiglia e nella società (cfr. fonte 2).
Nell’Ottocento l’avvento del liberalismo porta con sé una nuova riflessione sulle regole della vita coniugale, legata alla diffusione di una concezione più intima e affettiva della famiglia, pur senza scalfire la sottomissione della donna sposata. Peraltro, il modello familiare e la morale propri della società borghese, basati su un confine netto tra sfera pubblica e sfera privata (e quindi fra diritto e morale), contribuiscono a produrre una sorta di “privatizzazione” della violenza domestica. La deroga ai principi liberali in nome di antiche e radicate convinzioni è, infatti, ciò che il primo femminismo rimprovera fin dal 1865 al Codice civile del Regno d’Italia, che manteneva le donne sposate in uno stato di minorità.
Nel XIX secolo, tuttavia, sul piano normativo si restringono i margini dell’arbitrio del marito. Basti pensare al codice Zanardelli del 1889, primo Codice penale liberale dell’Italia unita, che contempla la violenza coniugale fra i delitti contro la persona (cfr. fonte 3). Mentre le corti penali si orientano sempre più a favore delle donne maltrattate, anche da parte dei mariti si nota in parallelo una progressiva caduta della rivendicazione dello jus corrigendi6. La violenza sessuale viene così inserita fra i delitti contro il buon costume e l’ordine familiare, nonostante già negli anni Settanta dell’Ottocento alcuni giuristi l’avessero considerata fra i reati contro la persona: un’acquisizione di principio che sarà recepita dall’ordinamento italiano solo nel 1996.
Nella storia della violenza sessuale emerge evidente la forza delle rappresentazioni e della mentalità diffusa: anche i giuristi liberali conservano la convinzione che un certo grado di violenza - la vis grata puellis (secondo la formula di Ovidio)7 - caratterizzi “naturalmente” la relazione intima, così come che la credibilità della parola femminile sia “naturalmente” più labile. Gli esperti di diritto del tempo spiegano la difformità fra l’elaborazione giuridica teorica e le norme positive con ragioni di opportunità, cioè con la necessità di preservare l’ordine sociale. In questo modo si giustifica comunque la violenza contro le donne ritenute disoneste e nei processi per violenza sessuale s'instaura una prassi in cui la vittima viene sottoposta a ripetuti e pesanti interrogatori per la verifica della sua reputazione.
Il passaggio della guerra
La Prima guerra mondiale costituisce una cesura nelle trasformazioni avviate con le Rivoluzioni tra XVIII e XIX secolo. Gli aspetti di modernizzazione presenti nella mobilitazione femminile del “fronte interno” soprattutto in campo lavorativo, al termine del conflitto sono compromessi dal bisogno di normalizzazione che segue all’immane tragedia. Torna in tutta Europa l’analogia tra l’ordine familiare e l’ordine sociale e forte è la polemica contro l’inserimento delle donne nella vita pubblica. Si accentua semmai il carattere pubblico della famiglia, e quindi l’intervento degli Stati su di essa. Negli anni Venti e Trenta del Novecento i codici emanati dal regime fascista in Italia, in accordo con la tradizione religiosa, ribadiscono che il marito è il capo della famiglia, il quale conserva un certo potere correttivo legato alla sua autorità. I maltrattamenti in famiglia non sono più considerati un delitto contro la persona, bensì contro la famiglia, anche se la pena aumenta. Così la violenza sessuale rientra nei delitti contro la moralità pubblica e il buon costume; e mantiene la sua validità l’argomento della vis grata puellis.
L’Italia repubblicana
Con la nascita della Repubblica, la situazione in Italia non cambia radicalmente. Sebbene la Costituzione rappresenti un innegabile progresso sul piano dei diritti, la lentezza con cui i nuovi principi costituzionali influiscono sulla sensibilità collettiva fa sì che la violenza sulle donne abbia un ampio margine di legittimità, almeno fino alla grande trasformazione del Paese che avviene dalla fine degli anni Cinquanta. Entrano allora in crisi anche secolari strutture dei rapporti di genere: in una prima fase si mettono in discussione quegli aspetti del patriarcato che ostacolano l’ingresso delle donne nell’istruzione, nella mobilità e nel lavoro. A partire dagli anni Sessanta, anche grazie alla stagione dei movimenti esplosa negli anni Settanta, si avvia una radicale messa in discussione della gerarchia fra i sessi a partire dalla sfera privata, con il contributo dirompente del femminismo. La forza del femminismo nel discorso pubblico fa sì che le istanze delle donne trovino una sponda anche presso molte parlamentari. Ciò produce un’accelerazione senza precedenti sul piano legislativo, che trasforma le regole giuridiche del rapporto uomo-donna in primo luogo in famiglia, con l’introduzione del divorzio, del nuovo codice di famiglia, della abolizione del reato d’aborto, del delitto d’onore e del matrimonio riparatore8.
Cresce una sensibilità diffusa che mostra sempre più una bassa tolleranza verso la violenza contro le donne: dal convegno internazionale sulla violenza contro le donne, organizzato dal movimento femminista nell’aprile del 1978, nascerà il Comitato promotore della legge di iniziativa popolare contro la violenza sessuale, che raccoglierà 300.000 firme. Il femminismo contribuisce ad ampliare la nozione di violenza, per comprendervi anche la dimensione psicologica ed economica, mettendo a nudo i modelli culturali sessisti che orientano la società. Sorgono così anche le prime case di accoglienza per le donne oggetto di violenza e i primi centri antiviolenza (cfr. fonte 4) ancor oggi ritenuti uno strumento importante contro il perpetuarsi del fenomeno.
Note
1 Cfr. https://www.ohchr.org/sites/default/files/Documents/ProfessionalInterest/eliminationvaw.pdf
2 Galeno è un’ importante figura di medico vissuto nel II secolo d. C., le cui analisi hanno influenzato la medicina occidentale fino alla Rivoluzione scientifica d’età moderna.
3 Di San Paolo si veda, ad esempio, la Prima lettera a Timoteo 2, 11-15.
4 Vissuto tra IV e V secolo d. C., dottore della Chiesa, è uno dei pensatori cristiani che più hanno influenzato la cultura occidentale. Tra i suoi testi più famosi il De civitate Dei (La città di Dio).
5 Vissuto nel XIII secolo, fu il principale esponente della filosofia scolastica medievale, proponendo un raccordo sostanziale fra tradizione filosofica antica e cristianesimo. Tra le sue opere più importanti la Summa Theologiae.
6 Letteralmente “diritto di correzione” dei soggetti della famiglia considerati non capaci di autonomia, lo jus corrigendi è una norma invalsa per secoli nelle leggi delle società medievali e di età moderna e che ha permeato diffusamente usi e costumi anche dopo la sua abolizione (in Italia nel 1956).
7 L’espressione “violenza gradita alle fanciulle” deriva dall’opera di Ovidio Ars amatoria; essa indica il presunto atteggiamento femminile di ritrosia e passività, che però accetterebbe di buon grado l’iniziativa e l’aggressività maschile in campo sessuale.
8 Mentre il delitto d’onore era un reato che si pensava commesso per “ristabilire” l’onorabilità del singolo o della famiglia, rispetto alle relazioni sentimentali di una donna dello stesso nucleo familiare, il matrimonio riparatore veniva imposto per sanare una relazione sessuale prematrimoniale, in una società in cui era indiscusso il valore della verginità femminile fino al matrimonio.
Fonti
1. Tito Livio, Il ratto delle sabine
Tito Livio nella sua Storia di Roma riporta le narrazioni del tempo mitico delle origini. Romolo, fondata Roma nel 753 a.C., qualche anno dopo desidera introdurvi le donne dalle genti vicine. Opera allora con l’inganno e organizza un rapimento collettivo. I romani orchestrano una violenza (vis) collettiva, segnalando col controllo del corpo femminile la sottomissione del popolo vinto. Oltre che spiegare come gli antenati avessero governato, avendo come prima alleata la popolazione dei Sabini, il racconto consente di capire il significato di vocaboli ancora in uso nei rituali matrimoniali, come il grido ‘talassio’ che a Roma allietava il corteo degli sposi. La violenza sulle donne per Tito Livio è comunque una questione di rapporto tra popoli, in cui la soggezione femminile è data come naturale.
«Romolo, dissimulando il proprio dispetto, predispone ad arte solenni ludi in onore di Nettuno equestre […]. Come giunse il momento dello spettacolo, e ad esso erano intenti gli occhi e gli animi, ecco scoppiare, come era stato predisposto, un tumulto; e al segnale convenuto i giovani romani si precipitano in tutte le direzioni a rapire le fanciulle. La maggior parte di esse furono prese da quelli alle cui mani vennero; alcune più belle, destinate ai più insigni senatori, furono portate nelle loro case da uomini della plebe di ciò incaricati; una, la più notevole di tutte per aspetto e per bellezza, si dice che fosse rapita dalla ciurmaglia di un tal Talassio, e chiedendosi da molti a chi fosse condotta, quelli andarono di tratto in tratto gridando e ripetendo, affinché nessuno la toccasse, che veniva portata a Talassio; e da allora questo diventò grido nuziale.»
Tito Livio, Ab Urbe condita libri, I, 9-13 passim, in Id., Storia di Roma. Testo latino e versione di G. Vitali. Libri I-III, Bologna, Zanichelli, 1954, pp. 27-33.
2. Immanuel Kant, La donna è tenuta all’obbedienza
Pensatore d’importanza cruciale per la cultura europea tra Sette e Ottocento, Kant struttura sul binomio natura/contratto anche la sua visione della famiglia e del rapporto tra i sessi. Afferma così che il matrimonio è il risultato di un contratto e parla di matrimonio come unione per il «possesso reciproco» delle facoltà sessuali. Tuttavia, la gerarchia tra i generi è evidente laddove si dice che è l’uomo ad acquistare la donna e quando il filosofo sostiene la superiorità naturale dell’uomo sulla donna nel «procurare l’interesse comune della famiglia». Da questa deriva, per il filosofo, il diritto al comando. Si tratta di una pagina molto interessante che, pur nella sua contraddittorietà, segnala una fase storica di transizione verso nuove concezioni nelle relazioni di genere, che in Europa si avvia nel XVIII secolo.
«Parte I, capitolo II , sez. III , §23
L’acquisto che si fonda su questa legge è, quanto al suo oggetto, di tre specie: l’uomo acquista una donna, la coppia acquista dei figli, e la famiglia dei domestici.
Parte I, capitolo II , sez. III , §24
Il rapporto sessuale è: o quello che obbedisce alla pura natura animale […], o quello che si conforma alla legge. Questo secondo caso è il matrimonio (matrimonium) cioè l’unione di due persone di sesso diverso per il possesso reciproco delle loro facoltà sessuali durante tutta la loro vita. […]
Il matrimonio non è un contratto facoltativo […]. Quando un uomo e una donna vogliono godere reciprocamente le proprie facoltà sessuali, devono necessariamente unirsi in matrimonio.
Parte I, capitolo II , sez. III , §26
Egli [il marito] deve essere il tuo padrone (cioè egli sarà la parte che comanda, la donna quella che ubbidisce). Ma questo non può essere considerato come contrario all’uguaglianza naturale dei membri di una coppia, nella misura in cui tale dominio si basa soltanto sulla superiorità naturale delle facoltà dell’uomo rispetto a quelle della donna nell’opera di procurare l’interesse comune della famiglia e nel diritto al comando che ne deriva.»
I. Kant, La metafisica dei costumi, a cura di G. Vidari, Roma-Bari, Laterza, 2016, p. 125.
3. La novità del codice Zanardelli
Nel 1889 il codice Zanardelli introdusse un netto cambiamento nella storia del diritto italiano, collocando l’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina ed i maltrattamenti in famiglia sotto le disposizioni riguardanti i «delitti contro la persona». Vennero inoltre considerate persone della famiglia non solo quelle legate da vincoli di sangue, ma anche quelle legate da intima consuetudine di rapporti, ovvero dalla convivenza. Durante il fascismo, secondo il Codice Rocco, questa fattispecie di reati fu invece ricompresa tra i delitti contro la famiglia: in questo modo la dignità femminile veniva nuovamente misconosciuta a vantaggio dell’interesse “superiore” del nucleo familiare.
«Titolo IX.
Dei delitti contro la persona
[…]
Capo VI. Dell’abuso dei mezzi di correzione o di disciplina e dei maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli
390. Chiunque, abusando dei mezzi di correzione o di disciplina, cagiona danno o pericolo alla salute di una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, di istruzione, di cura, di vigilanza o di custodia, ovvero per l’esercizio di una professione o di un’arte, è punito con la detenzione sino a diciotto mesi.
391. Chiunque, fuori dei casi indicati nell’articolo precedente, usa maltrattamenti verso persone della famiglia o verso un fanciullo minore dei dodici anni è punito con la reclusione sino a trenta mesi. (…)
Se i maltrattamenti siano commessi verso il coniuge, non si procede che a querela dell’offeso, e, se questi sia minore, anche a querela di coloro che, ove non fosse coniugato, avrebbero sopra lui la podestà patria o l’autorità tutoria.»
4. La nascita dei Centri antiviolenza
Nati su iniziativa del movimento femminista, i Centri antiviolenza sono stati e sono uno dei pochi strumenti non giuridici di cui hanno saputo dotarsi le nostre società contemporanee per contrastare gli abusi sulle donne. Sulla base del rapporto di fiducia e comprensione tra donne, che è uno dei punti di forza dell’elaborazione del movimento femminista, essi hanno potuto attestare anche le forme più private e intime di violenza, presenti anche tra i soggetti più insospettabili, come mostra questa testimonianza orale.
«Non c’era una teoria alle spalle che ti sosteneva, sapevi solo che dovevi fare quelle cose, poi hai capito che le donne picchiate che denunciano la violenza del marito non le puoi rimandare a casa, perché sennò quello le ammazza di botte. Prima alla buona dentro le nostre case, ma poi c’era bisogno assolutamente di una situazione ferma, di una casa per le donne picchiate. Non so se la violenza domestica fosse un fenomeno più diffuso allora. Era più denunciato, le donne venivano e ce lo dicevano. Del Centro antiviolenza non ci sono documentazioni, ma io non posso scordare i racconti di queste donne. Arrivava la moglie del segretario del Pci vicino, oppure arrivava la moglie del magistrato che ti raccontavano quello che dovevano subire, tutta una serie di cose di cui non abbiamo documentazione.»
B. Pisa, Il Movimento di liberazione della donna e il primo Centro contro la violenza sulle donne, in S. Feci, L. Schettini (a cura), La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secc. XV-XXI), Viella 2017, pp. 175-176.
Bibliografia essenziale
Brownmiller S., Contro la nostra volontà. Uomini, donne e violenza sessuale, Milano 1976
Cantarella E., L'ambiguo malanno. Condizione e immagine della donna nell'antichità greca e romana, Milano 2013
Cocchiara M.A., Violenza di genere, politica e istituzioni, Milano 2014
Noce T., Il corpo e il reato. Diritto e violenza sessuale nell'Italia dell'Ottocento, Lecce 2009
I secoli delle donne. Fonti e materiali per la didattica della storia, a cura di F. Bellucci, A. Celi, L. Gazzetta, Roma 2023
La violenza contro le donne nella storia. Contesti, linguaggi, politiche del diritto (secc. XV-XXI), a cura di L. Schettini, S. Feci, Roma 2017
Violenza alle donne. Una prospettiva medievale, a cura di A. Esposito, F. Franceschi, G. Piccinni, Bologna 2018
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