Gaza, la guerra che non finisce

La situazione sul campo e i possibili esiti spiegati da un esperto di Medio Oriente

L’offensiva più lunga e violenta mai sferrata da Israele dall’inizio del conflitto con i palestinesi continua ad insanguinare la striscia di Gaza e, superati i 700 giorni, sembra destinata a protrarsi nel suo terzo anno.

Una guerra “semipermanente”

L’offensiva più lunga e violenta mai sferrata da Israele dall’inizio del conflitto con i palestinesi continua ad insanguinare la striscia di Gaza e, superati i 700 giorni, sembra destinata a protrarsi nel suo terzo anno.
Nessuno osservatore locale o internazionale avrebbe immaginato, all’indomani dell’attacco indiscriminato di Hamas sullo Stato ebraico il 7 ottobre 2023, che la fase di massima intensità dello scontro potesse trascinarsi così a lungo, fino a trasformarsi in una realtà semipermanente nella quale l’uccisione ogni giorno di decine di palestinesi di Gaza, da parte delle forze israeliane, pare ormai divenuta quasi “normale”.

La situazione politica all’interno di Israele

Diversi fattori contribuiscono a creare questa situazione. Forze politiche molto influenti all’interno del governo del premier israeliano Benjamin Netanyahu, il più estremista della storia del Paese, vedono nella guerra la condizione ideale per portare avanti il proprio progetto di espansione all’interno dei territori palestinesi, che considerano appannaggio della popolazione ebraica. Dal loro punto di vista, la crisi, paradossalmente, rappresenta una grande opportunità. Netanyahu, da parte sua, secondo i critici, considera lo stato di guerra utile a sfuggire da incombenti crisi politiche e giudiziarie.

Le azioni di Hamas

L’altro elemento fondamentale è la determinazione del movimento Hamas a non rassegnarsi a una resa totale, quali che siano le conseguenze in termini di distruzione e numero di vittime a Gaza. Dall’inizio della guerra sono stati uccisi oltre 64.000 palestinesi e la devastazione in alcune zone della striscia, per esempio Beit Hanoun, nel nord, e Rafah, nel sud, è pressoché totale. Al punto che l’uso del termine “genocidio” per descrivere la carneficina in corso è divenuto sempre più diffuso. Eppure, malgrado tutto questo, i militanti di Hamas continuano a detenere circa un quinto degli ostaggi israeliani rapiti durante il primo giorno di ostilità, ad organizzare operazioni di guerriglia e a chiedere il ritiro israeliano dal territorio.

Il fronte internazionale

Altri attori regionali che si sono scontrati con lo Stato ebraico in questi due anni, come la milizia libanese Hezbollah e l’Iran, hanno deciso, al contrario, di non portare avanti una guerra a oltranza con Israele, il cui esercito è il più attrezzato e aggressivo della regione. Dopo una fase di conflitto acuto, durata, rispettivamente, oltre un anno e quasi due settimane, sia Hezbollah che l’Iran hanno accettato di cessare il fuoco per limitare le perdite e i danni sul fronte interno. Hamas, invece, ha ampiamente dimostrato di considerare la tutela della propria popolazione un obiettivo secondario nella guerra con Israele, subordinando ogni senso di responsabilità verso i propri civili agli obiettivi politici e militari.

La distruzione del nemico

In modo per certi versi simile il governo israeliano ha dato prova di considerare la distruzione del nemico più importante rispetto alla liberazione dei propri ostaggi. Un fatto emblematico del modo in cui, dopo oltre 100 anni di conflitto, l’ostilità fra le due parti in causa abbia preso decisamente il sopravvento. E di come le potenze internazionali, in primis gli Stati Uniti, che continuano a finanziare ed armare Israele dopo aver di fatto abbandonato il ruolo storico di promotore del processo di pace, abbiano fallito nel ruolo di mediazione e non abbiano fatto abbastanza per fermare i massacri.

La situazione sul terreno

Dopo due anni di guerra la striscia di Gaza è completamente sfigurata. La politica israeliana di non consentire l’accesso ai giornalisti, oltre a quella di colpire frequentemente i cronisti locali in violazione del diritto internazionale (ne sono stati uccisi 260 dall’inizio del conflitto), rende complesso avere un quadro generale della situazione sul campo.
Ma le immagini satellitari e le testimonianze dei residenti descrivono la distruzione di quasi tre quarti del tessuto urbano della Striscia e la concentrazione della popolazione in piccole sacche di territorio equivalenti al 15-20 per cento di questa martoriata regione. Il resto del territorio è sottoposto all’occupazione delle forze israeliane o ai suoi ordini di evacuazione: solo pochi abitanti, stremati e privi di un posto dove sfollare, decidono di rimanere a costo di mettere in pericolo le proprie vite.
Israele accusa Hamas di svolgere ancora un ruolo nella distribuzione degli aiuti e nella gestione della realtà locale. Eppure, i funzionari delle agenzie ONU e delle numerose organizzazioni internazionali che lavorano nelle enclave palestinesi raccontano che la presenza di Hamas è totalmente invisibile sul campo e che nei colloqui con la popolazione locale l’organizzazione non viene mai citata come entità amministrativa ancora esistente, neppure in forma residuale.

La crisi alimentare

I funzionari del settore umanitario hanno accesso alla Striscia ma operano in condizioni estremamente complicate, confrontandosi continuamente con gli ostacoli burocratici frapposti dagli israeliani. Inoltre, per diversi mesi, a partire da marzo 2025, le autorità dello Stato ebraico hanno impedito del tutto l’ingresso degli aiuti, provocando una gravissima crisi alimentare. Ad oggi le autorità stimano quasi 400 palestinesi siano morti a causa di forme avanzate malnutrizione, di cui quasi 150 bambini.

Gli israeliani di fronte alla guerra

Sul piano interno israeliano, il sostegno all’operazione rimane diffuso, anche se tre quarti della popolazione sarebbe favorevole a un accordo di cessate il fuoco che liberi gli ostaggi. In agosto è caduto l’anniversario dei venti anni dal ritiro israeliano da Gaza, provocando un rinnovato dibattito nazionale sulla decisione di rinunciare al controllo militare diretto e agli insediamenti israeliani nella Striscia. Fu l’allora primo ministro Ariel Sharon, nell’agosto 2005, a scegliere la strada del disimpegno dalla regione, che Israele occupava insieme alla Cisgiordania e ad altri territori dal 1967.
«Il giorno è giunto. Non possiamo tenere la Striscia di Gaza per sempre. Vi abitano oltre un milione di palestinesi e il loro numero raddoppia a ogni generazione» disse Sharon nel discorso del 15 agosto 2005, dando il via alle operazioni per il ritiro. Alludendo a un bivio nel conflitto con i palestinesi, fra una possibile distensione o un ulteriore acuirsi del conflitto, aggiunse: «A una mano tesa risponderemo con un ramoscello d’ulivo ma al fuoco risponderemo col fuoco più spietato.» Oggi, con il senno del poi, molti israeliani considerano il ritiro un errore strategico, che ha consentito ad Hamas di governare la striscia dal 2007 fino al terribile attacco che ha scatenato questa guerra.

Gli scenari futuri: occupazione e governo militare

I documentari nostalgici trasmessi dai media israeliani sui vecchi insediamenti di Gaza in occasione dell’anniversario forniscono un indizio quanto a possibili scenari dopo la fine della guerra. Dopo il 7 ottobre l’opinione pubblica israeliana considera in prevalenza “incosciente” concedere forme di autonomia ai palestinesi, in quanto queste realtà potrebbero trasformarsi in rampe di lancio per nuovi attacchi contro Israele. Anche chi partecipa alle grandi manifestazioni che si svolgono a Tel Aviv per la fine della guerra e la liberazione degli ostaggi difficilmente appoggerebbe la restituzione di Gaza ad una autonomia amministrativa palestinese. È dunque presumibile che i leader israeliani vorranno interferire nel governo di Gaza anche dopo la fine del conflitto, almeno in maniera indiretta.
In altre parole, l’occupazione, in una forma più o meno invasiva, è destinata a continuare. L’attuale offensiva di terra (settembre 2025), con cui Israele ha dichiarato la propria intenzione di acquisire il controllo del capoluogo del territorio, Gaza City, è un ulteriore segnale che si vada in questa direzione. Nel medio-lungo termine, l’esito più probabile è che il territorio rimanga sotto un governo militare simile a quello in vigore da quasi sessant’anni in Cisgiordania. Gaza potrebbe essere gestita direttamente da Israele oppure affidata in parte a partner locali o internazionali che lo Stato ebraico considera sufficientemente sensibili alle proprie esigenze di sicurezza.
I leader della destra religiosa e nazionalista alleati di Netanyahu, tuttavia, finora non sono riusciti ad imporre la propria linea favorevole al ritorno alla politica di insediamento nella Striscia di Gaza, che potrebbe di fatto riportare le lancette indietro a vent’anni fa.

I cambiamenti attesi con le elezioni del 2026

Una svolta che potrebbe mettere fine alla fase più acuta del conflitto potrebbe arrivare con le nuove elezioni israeliane, previste fra un anno nell’ottobre 2026. Le forze governative, secondo i sondaggi, non sono più da tempo le più popolari presso l’elettorato israeliano. Molto probabilmente, quindi, i partiti dei ministri estremisti Bezalel Smotrich e Itamar Ben Gvir non faranno parte di un prossimo governo.
Lo stesso Netanyahu vedrebbe il suo partito perdere il primato per mano dell’ex alleato Naftali Bennett, a sua volta conservatore di destra ma su posizioni più moderate e favorevole a un accordo per il cessate il fuoco e il rilascio degli ostaggi (oggi si stima che circa metà dei 50 ostaggi ancora a Gaza siano vivi, ma dopo le prossime elezioni potrebbero essere ancora meno). In ogni caso, stando all’aritmetica attuale, la prossima maggioranza sarà probabilmente formata da partiti propensi a mettere fine alla guerra di Gaza. A quel punto, rimarrà la grande incognita di chi, e come, si farà carico di rimuovere l’immane massa di detriti in tutta la Striscia, un’operazione per la quale potrebbero volerci decenni. Prima ancora che si possa pensare di ricostruire.

Per seguire il lavoro giornalistico di Davide Lerner sulla situazione in Medio Oriente:

 Gli editoriali sul quotidiano “Domani”

Gli articoli sul quotidiano israeliano “Haaretz”

The Patriots effect: Israel’s shifting civil discourse under Netanyahu, Journalist Fellowship Paper 2024 (Reuters Institute, University of Oxford)

Referenze iconografiche: Gaza-Survival Journey/Shutterstock

Davide Lerner

Giornalista italiano, scrive sul quotidiano “Domani” ed è voce di Radio3. Precedentemente è stato ricercatore al Reuters Institute di Oxford e ha lavorato per tre anni nella redazione del quotidiano “Haaretz” in Israele. Ha scritto per Piemme il reportage Il sentiero dei dieci. Una storia fra Israele e Gaza.