Qual è il compito della filosofia di fronte alla vita?

La filosofia non lenisce i mali della vita, li comprende; non cura, spiega. Un contributo di Maurizio Ferraris che tocca le corde profonde di ogni esistenza umana.

La filosofia e la vita

«Le frustate e gli scherni del tempo, il torto dell’oppressore, l’ingiuria dell’uomo superbo, gli spasimi dell’amore disprezzato, il ritardo della legge, l’insolenza delle cariche ufficiali, e il disprezzo che il merito paziente riceve dagli indegni.» Ecco una sintesi delle disgrazie che si abbattono sulla condizione umana nel monologo di Amleto. Sono cose che, tranne qualche improbabile fortunato, fanno parte della vita, dunque anche della filosofia. Ma questo significa forse che la filosofia può lenire questi mali, o addirittura farli sparire? No.
Certo, la filosofia avanza spesso la pretesa di guidare alla vita beata e alla felicità, e lì, almeno, si capisce che i filosofi si stanno giocando una carta pubblicitaria, quella di accreditarsi come dei consiglieri spirituali che disputano il terreno ad altri agenti, che siano i sacerdoti di una qualche fede, gli scrittori di manuali di auto-aiuto, gli psicoterapeuti dei più vari indirizzi. E non si tratta di una situazione nuova, perché da sempre questa è stata una delle promesse fondamentali della filosofia.
A volte, in modo più pensoso, cauto, apparentemente meno impegnativo, la filosofia si vende o si offre come orientamento nel mondo, come una sorta di saggezza mondana (Weltweisheit, cioè appunto “saggezza del mondo”, nel Medioevo e per qualche secolo, è stata una traduzione tedesca di “filosofia”), che guida i perplessi e i dispersi. Ma è anche vero che, altre volte, la filosofia si presenta proprio come la denuncia della totale insensatezza del mondo, ossia come la presa d’atto del fatto che è inutile cercare un orientamento o un senso.
Tutto questo, che sia la promessa della felicità o dell’orientamento, o del disorientamento, parte da un presupposto implicito, e cioè che il filosofo sia un competente in materia, e che la prova di questa competenza si trovi nel fatto che il filosofo è più orientato di altri, e che lo smarrimento, proprio in quanto filosofo, non lo riguardi.
Ovviamente, non è così. Lo dico proponendo una sorta di disclaimer, come un mettere le mani avanti, perché qualche mese fa ho pubblicato un libro, Imparare a vivere[1] che potrebbe aver dato l’impressione di voler insegnare a vivere, e che io mi ritenessi in qualche modo titolato per dare lezioni. Non è assolutamente così. Ragionare sull’imparare a vivere, per me, era casomai riflettere su quanto sia difficile vivere, e su quanto l’impresa dell’imparare qualcosa in materia abbia dell’iperbolico. La filosofia, in questo orizzonte, aveva un unico scopo, quello di dare una forma più o meno organizzata a problemi, sofferenze e lacerazioni che affliggono l’umanità indipendentemente dalla filosofia e con una sovrana indifferenza rispetto ai suoi eventuali precetti e alle sue più o meno efficaci ricette di saggezza.

La scissione e la fine del mondo

Perché il male da curare non è accessorio o accidentale: è costitutivo di ciò che siamo. La scissione, e le sofferenze che ne derivano, è la caratteristica dell’umano. Gli animali non umani hanno impulsi commisurati alle loro esigenze di protezione della vita e di riproduzione. L’animale umano ha un insieme di impulsi mai pienamente realizzabili. L’ambiente è straordinariamente vario, e inoltre cambia di continuo; gli istinti hanno un ruolo sempre più secondario, e prevale uno sgomento, una mancanza di orientamento: che senso ha? O, per dirla con Kant, che cosa posso sapere? Che cosa devo fare? E che cosa posso sperare?
Di fronte a questo sgomento, che mitighiamo con le piccole occupazioni e distrazioni quotidiane, può capitare di invidiare la presunta felicità dei “primitivi”. Una vita beata che ai nostri occhi è semplicemente un difetto di scissione, e dunque una aderenza più completa all’ambiente, che tuttavia non è maggiore felicità (la felicità è un superamento della scissione), bensì un collocarsi alla soglia inferiore rispetto alla alternativa, successiva alla scissione, tra felicità e infelicità. Ma, ovviamente, abbiamo a che fare con una illusione: anche i cosiddetti “primitivi” sono scissi, e a volte la scissione può assumere forme anche più manifeste e tragiche di quanto non avvenga alle nostre latitudini.
E anche alle nostre latitudini il panorama è tutt’altro che uniforme. Per esempio, l’antropologo italiano Ernesto De Martino ha dedicato pagine profonde e impressionanti al fenomeno della fine del mondo in quanto esperienza vissuta[2], e ha raccontato di un pastore calabrese che non riusciva (a rischio di cadere in preda allo sgomento) ad allontanarsi dal suo paese, Marcellinara, a una distanza maggiore di quella che gli permetteva di vedere il campanile della chiesa.
Ora, il sentimento della fine del mondo non riguarda soltanto le civiltà arcaiche, o semplicemente arretrate, oppure la psicopatologia: è la regola, triste e tragica, della vita di ognuno di noi, che l’abitudine nasconde, ma solo un poco. Questo spiega perché strutturalmente l’umano, in quanto portatore di uno spirito, possa soffrire per circostanze che stanno soltanto nella sua mente, e che soltanto in parte possono venire spiegate con fattori fisiologici.

Cosa non ho imparato dai libri

Permettetemi, a proposito di lacerazione e fine del mondo, una digressione che non si vuole letteraria ma prosaica e diaristica, ossia vuol parlare di qualcosa che non ho imparato dai libri, o non solo. Si capisce che cos’è un martello quando si rompe il manico[3]. Si capisce cosa è il mondo, e cosa significa essere nel mondo, quando – per un motivo qualunque o addirittura per nessun motivo – la vita va a pezzi o non troviamo più un appiglio.
L’ansia, a questo punto, diventa l’unico sentimento, capace però di indossare tante altre forme, come la tristezza, la malinconia, la disperazione pura e semplice. E l’essere nel mondo, a questo punto, prende la forma di un non esserci, di essere espulso da quella strana totalità che era sino allora il nostro mondo, e che adesso appare non più nostro (ma di chi, allora?), e di fluttuare nel nulla, come Major Tom nella canzone di David Bowie, con il cavo staccato, più nessun appiglio con l’astronave, perduti in un blu che diventa nero[4].
Ma questa è una descrizione in terza persona, come si conviene a un saggio. In prima persona l’impressione è diversa, ed è pressappoco questa. Quando finisce il mondo, sei un puntino perso in qualunque luogo tu ti trovi, magari in un’auto che sta girando da qualche parte che potrebbe essere qualunque parte, tanto tu sei via. Magari un puntino confuso con tantissimi altri puntini, come Hans Castorp alla fine della Montagna incantata, che con una moltitudine corre verso il nulla, per quello che possiamo saperne.
L’impressione è talmente forte che si può proiettare su altre persone o personaggi, che sembrano anche loro senza mondo, quando ovviamente a non avercelo sei tu. Per esempio, vedi al cinema, in Oppenheimer, una cavalcata in New Mexico, e ti chiedi che cosa possa aver spinto un uomo e una donna a disperdersi in quella immensità. E poi ti rendi conto che la domanda si può applicare, con maggiore appropriatezza e dettaglio, a te che sei seduto in una poltrona del cinema.

In giro e a casa

Questo senso di dispersione suscita degli interrogativi legati alla professione del professore. Che cosa ti ha spinto per decenni a scendere e salire l’altrui scale, prendere taxi, treni, aerei, a volte anche navi, e andare nei posti più impensabili nei momenti più impensati? Che cosa ti ha indotto a disperderti come si potrebbero disperdere delle cartoline, per convegni, conferenze, per una socialità insieme forzata, temuta, eppure desiderata? Chi te lo ha fatto fare? Direi uno strano ideale, l’idea che quello fosse il tuo dovere e il tuo destino, e tutto si svolgesse nel tuo mondo.
Ma qui il senso del dovere, l’idea della missione, bastava a darti il la, e a circondarti del confortante calore e della certezza di essere nel tuo mondo, inteso qui come un mondo morale, come un regno dei fini, come una legge morale imperiosa ma interiore e totalmente mia che impedisce di disperdersi nel vuoto circostante o nel cielo sovrastante. Quando poi, a causa delle migliaia di chilometri accumulati, trovandoti magari alle tre di notte o a chissà che ora, per davvero, nell’aeroporto di una immensa e sconosciuta città della Cina occidentale, quella davvero remota, con la necessità di cambiare aereo e con la difficoltà di orientarsi dove ci sono solo degli ideogrammi – ecco, in quel momento la palese evidenza di non essere nel tuo mondo non poteva essere contraddetta.
Ma interveniva l’idea che stavi tornando a casa, che quella casa era il tuo mondo, o almeno la prospettiva più giusta da cui guardarlo. La casa è davvero una strana sensazione, su cui però vorrei spendere meno righe possibile. Ci si pensa con tenerezza, come a una cosa dolce e accogliente. Ma la verità è che si tratta di qualcosa di roccioso e di spinoso, e non per caso, visto che l’impressione dell’“a casa” è l’idea dell’esserci, dell’essere in un pezzo di mondo che sta alla base di tutto il resto del mondo. Ovviamente, quando questa impressione o convinzione salta, è la fine del mondo, in tutti i sensi possibili di questa parola.

Filosofia e letteratura

Concludo queste riflessioni poco ordinate per proporre una morale delle favole che ho raccontato. La vita è una cosa severa, ed è del tutto naturale che la filosofia se ne occupi. Con quale successo, è materia controversa. Perché certe terapie “filosofiche” che propongono, come in un vecchio libro, Platone al posto del Prozac, sono davvero poco credibili, e rischiano di trasformare il filosofo in un “consulente”.
Dove la filosofia riesce meglio, credo, è nello spiegare la vita e le sue lacerazioni. Sebbene ci siano autori, e tra questi ci sono anche dei filosofi, che sostengono che la vera conoscenza della vita venga dai romanzi, sono persuaso che Montaigne, Hegel, Kierkegaard e Heidegger abbiano saputo parlarci della vita con una radicalità e una lucidità che non troveremo mai nei capolavori di Flaubert, Proust o Dostoevskij. E questo per il banale motivo che, mentre gli scrittori descrivono, e sono tanto più grandi in quanto descrivono senza spiegare, i filosofi cercano, non di curare (lo ripeto), ma di spiegare.
E nello spiegare, questa la mia terza e ultima conclusione, l’impulso, gli argomenti, l’umore, l’amore, tutti gli elementi di cui è impastata la vita umana, sono gli ingredienti essenziali della riflessione filosofica. Può sembrare ovvio, persino banale, in filosofi come Nietzsche, Camus o Derrida. Ma sappiamo bene che nelle proposizioni cesellate e asettiche del Tractatus di Wittgenstein si condensavano tutti i turbamenti, i dolori e le speranza di una vita; che negli assiomi dell’Etica di Spinoza risuonano i dolori per maledizioni e scomuniche difficili, non dico da sopportare, ma da immaginare; e che nella vita regolare e ripetuta di Kant, nell’astrazione delle sue Critiche, non sia difficile vedere lo sforzo eroico per tenersi al di qua di un abisso, giusto sul limite, cercando di resistere alla tentazione di fare un passo più in là.

 

[1] M. Ferraris, Imparare a vivere, Laterza 2024.

[2] E. De Martino, La fine del mondo, Einaudi 2019.

[3] È il famoso esempio citato da Martin Heidegger in Essere e tempo.

[4] Ground Control to Major Tom

Your circuit's dead, there's something wrong
Can you hear me, Major Tom?
Can you hear me, Major Tom?
Can you hear me, Major Tom?
Can you?
[Chorus]
Here am I floating 'round my tin can
Far above the moon
Planet Earth is blue
And there's nothing I can do

Referenze iconografiche: David Bokuchava/Shutterstock

Maurizio Ferraris

Nato a Torino, allievo di Gianni Vattimo, collega in Francia di Jacques Derrida, è professore ordinario di Filosofia teoretica nell’Università di Torino, dove dirige il LabOnt (Laboratorio di Ontologia). Editorialista di “La Repubblica” e del supplemento culturale de “Il Sole24ore”, è direttore della “Rivista di Estetica”.
Ha scritto più di cinquanta libri che sono stati tradotti in diverse lingue; tra i più recenti Documanità. Filosofia del mondo nuovo (2021); Manifesto del nuovo realismo (2012); Spettri di Nietzsche (2014); Emergenza (2016); Postverità e altri enigmi (2017). Ha lavorato nel campo dell’estetica, dell’ermeneutica e dell’ontologia sociale, legando il suo nome alla teoria della documentalità e al nuovo realismo contemporaneo; ha collaborato come autore e conduttore a numerose trasmissioni televisive di Rai Cultura, come “Zettel”, “Zettel Debate”, “Lo stato dell’arte”.
Per Sanoma è autore dei corsi di filosofia Pensiero in movimento. Seconda edizione e Il gusto del pensare. Seconda edizione (Paravia, 2024).