Cambiamento climatico: a che punto siamo?
Un’analisi della “crisi delle crisi”, con dati aggiornati

Interventi frammentari e contraddittori
Ciascun ambito ha visto negli ultimi decenni, da parte degli Stati, interventi lenti, frammentari e spesso contraddittori, con esiti talvolta positivi ma non duraturi per la mancanza di una visione e di un coordinamento globali. Per esempio, per quanto riguarda l’esaurimento delle risorse naturali, la ricerca scientifica – con la creazione di nuovi materiali, il recupero degli scarti, il riciclaggio e processi di produzione innovativi – e la diffusione di una nuova mentalità imprenditoriale stanno allontanando lo spettro dell’imminente esaurimento ma senza effettivamente ridurre la tendenza a uno sfruttamento eccessivo. Lo stesso vale, a titolo di esempio, per le risorse ittiche: l’introduzione di zone di ripopolamento e norme più restrittive riguardo alla quantità del pescato e alle tecniche di cattura stanno limitando i fenomeni di sovrasfruttamento, ma i risultati sono a tutt’oggi molto timidi e limitati ad alcune regioni del mondo.
La crisi delle crisi
La mancanza di interventi strutturali, coerenti e globali si avverte in particolare nella crisi climatica, che oggi gli esperti definiscono la “crisi delle crisi”. I rapporti delle agenzie specializzate, quali l’Organizzazione meteorologica mondiale, l’Unep (Programma delle Nazioni Unite per l’ambiente), l’Ipcc (Intergovernmental Panel on Climate Change), l’Esa (Agenzia Spaziale Europea), Legambiente (per l’Italia), da molti anni non risparmiano le note di allarme sul progressivo aumento della concentrazione di gas serra nell’atmosfera e della temperatura terrestre, sebbene anche in questo caso, e negli stessi report, si trovino talvolta considerazioni più rassicuranti che inducono a pensare che i cambiamenti in atto possano non essere irreversibili (almeno nel lungo periodo). In linea con un ottimistico ce la possiamo ancora fare sono per esempio le conclusioni cui sono giunti gli esperti intervenuti al Festival Pianeta 2030 organizzato a metà del 2025 dal quotidiano “Il Corriere della Sera”.
In questo contesto è necessario dunque periodicamente verificare i dati per capire a che punto siamo, ma è soprattutto doveroso chiedersi 1) che cosa non ha funzionato se la concentrazione di CO2 nell’atmosfera e le temperature continuano a salire nonostante la stipula di accordi internazionali di contrasto alle emissioni di gas serra, e 2) quale idea di rapporto essere umano-ambiente ha guidato le decisioni e le azioni finora intraprese tanto a livello pubblico quanto privato.
Che cosa non ha funzionato, nonostante gli accordi internazionali
Per trovare una possibile risposta alla prima domanda partiamo da constatazioni oggettive: dai dati. Nonostante il crescente peso delle fonti rinnovabili nella produzione energetica sia un dato di fatto, con un trend positivo di oltre il 7% annuo nell’ultimo decennio, l’87% del fabbisogno mondiale è tuttora coperto dalle fonti fossili e soltanto il 13% da quelle rinnovabili. E tra i combustibili fossili, il carbone, il più inquinante, contribuisce ancora per quasi il 30% alla produzione di energia ed è secondo solo al petrolio.
Occorre tenere presente inoltre che la domanda mondiale di energia cresce di circa il 2% l’anno, sollecitata in particolare dai Paesi in via di sviluppo. Da sole, Cina e India assorbono un terzo della produzione energetica mondiale e la domanda degli altri Paesi dello stesso gruppo cresce contestualmente alla loro crescita demografica, lo sviluppo economico, l’aumento dei consumi. Di pari passo aumentano le emissioni di CO2 e la temperatura, come possiamo osservare nelle tabelle 1 e 2 e nel grafico scaricabili nel pdf allegato.
I dati non autorizzano a ritenere che le politiche green avviate con il Protocollo di Kyoto e proseguite con l’Accordo di Parigi siano state abbandonate, ma mettono in luce la contraddittorietà dei provvedimenti che ne limita o annulla l’efficacia.
Per esempio, gli Stati Uniti durante la prima e la seconda presidenza Trump sono usciti dall’Accordo di Parigi e in nome dell’obiettivo “indipendenza energetica” stanno spingendo sullo sfruttamento massiccio delle fonti fossili interne, mentre al tempo stesso cercano di accaparrarsi diritti di sfruttamento delle terre rare ovunque si trovino, per esempio in Ucraina, perché essenziali alla transizione energetica.
Unione Europea, Brasile, Cina, India, dal canto loro, confermano l’obiettivo della piena decarbonizzazione – le prime due entro il 2050, la terza entro il 2060, entro il 2070 la quarta –, ma a fronte di queste dichiarazioni d’intenti la Cina sta realizzando alcune centinaia di centrali a carbone e l’India ha altre priorità, come assicurare a tutta la popolazione l’accesso all’elettricità. Altro caso significativo è quello dell’Arabia Saudita e degli Emirati Arabi Uniti, che stanno investendo cifre da capogiro nella realizzazione di parchi solari e nell’idrogeno verde (ricavato per elettrolisi dall’acqua), ma contemporaneamente intensificano l’esportazione di gas e petrolio alimentando il mercato delle materie prime fossili per la produzione di energia. La Ue punta a triplicare la produzione energetica da fonti rinnovabili entro il 2030 e a sviluppare tecnologia sicura e a basso impatto ambientale per lo sfruttamento dell’uranio, ma trova grande resistenza nella diffusione dei veicoli a motore elettrico anziché termico: nel 2024 soltanto il 15% delle auto vendute aveva un motore elettrico e in Italia la quota si è fermata al 4,8%. Per ora la scadenza del 2035 per la messa al bando dei veicoli con motore termico resta fissata, ma le riserve di molti stati dell’Unione, fra cui l’Italia, sono forti e sono per lo più di natura economica.
Un discorso a parte richiedono i Paesi in via di sviluppo che non accettano imposizioni di carattere ambientale, previste dai trattati internazionali già citati, tali che possano ostacolare il loro sviluppo. In cambio della cosiddetta “libertà d’inquinare” essi chiedono piani di lunga durata di sostanziosi aiuti economici e tecnologici da parte dei Paesi avanzati e delle organizzazioni internazionali. Questa è anche la strada indicata nell’Agenda 2030 per lo Sviluppo sostenibile, ma suscita meraviglia che a richiedere sostegno finanziario per progetti di carattere ambientale sia la Cina, prima potenza commerciale mondiale.
Un nuovo concetto di clima come patrimonio universale
La difficoltà ad affrontare con coerenza e lungimiranza la crisi climatica ha però anche una motivazione più profonda: l’idea del rapporto tra esseri umani e ambiente. Se escludiamo le piccole comunità indigene che vivono in stretta dipendenza dall’ambiente per soddisfare i loro bisogni, il resto del mondo nei secoli ha maturato un rapporto di dominio nei confronti della natura che ancora oggi costituisce il modello dei nostri comportamenti, e che ha come conseguenza lo sfruttamento indiscriminato ai fini dello sviluppo sociale ed economico.
Affinché le azioni di contrasto al riscaldamento globale, come a qualsiasi altra forma di deterioramento ambientale, siano efficaci a lungo termine occorre dunque una vera e propria rivoluzione culturale che ricomponga la frattura tra umani e ambiente. In questa nuova visione il clima dovrebbe essere considerato una risorsa da proteggere e tutelare: una risorsa indivisibile che appartiene all’intera umanità e non a un Paese singolo, inscindibile dal resto del Pianeta. Un patrimonio universale da preservare per le generazioni future.
Scorrendo le pagine dell’ultimo rapporto dell’Ipcc, il principale organismo di studio e valutazione dei cambiamenti climatici, soltanto un grandissimo sforzo collettivo per la limitazione fino all’azzeramento delle emissioni di CO2 da qui al 2050 potrà contenere l’aumento della temperatura terrestre attorno alla soglia limite di + 1,5 °C. In questo lasso di tempo, le temperature continueranno a salire, benché più lentamente, poi nella seconda metà del secolo, se tutto funzionerà e ciascuno avrà fatto la sua parte, cominceranno a diminuire. Secondo gli scienziati, tuttavia, l’azzeramento delle emissioni non basta. Occorre anche intervenire con la cattura della CO2 dall’atmosfera e il suo stoccaggio.
Queste azioni sono possibili, concretamente realizzabili mettendo in atto politiche efficaci, ma occorre un cambio di visione, cui devono concorrere tutti: gli Stati, le imprese, i singoli cittadini, gli scienziati, le istituzioni culturali, a cominciare dalla scuola. Inoltre, se occorre intervenire con tempestività, data l’accelerazione dell’aumento della temperatura terrestre, occorre anche adottare un principio di cautela, valutando le criticità economiche (come l’aumento della disoccupazione in alcuni settori) che certe scelte possono comportare nella fase di transizione verso un nuovo modello di sviluppo.
EurobarometroGli Italiani, gli europei e il cambiamento climaticoPer conoscere l’opinione dei cittadini comunitari riguardo al cambiamento climatico (ma anche a tanti altri temi) la Commissione europea da qualche anno fa eseguire sondaggi in tutti gli Stati dell’Unione utilizzando il metodo della popolazione campione. Anche nel 2025 è stato reso pubblico il rapporto Climate Change, disponibile sul sito https://europa.eu/eurobarometer/screen/home. Collegandosi a “Eurobarometer”, si può accedere al rapporto completo, infografiche, risultati dell’inchiesta per ogni Paese messi a confronto con il dato medio comunitario. Per quanto riguarda i cittadini italiani, dall’indagine emerge che la popolazione è attenta e sensibile ai problemi connessi al cambiamento climatico e alle soluzioni che dovrebbero essere adottate, ma lo è molto meno rispetto alla media comunitaria quando si toccano i comportamenti individuali. Una lettura attenta delle risposte fornite dal nostro campione mette in luce le contraddizioni e le resistenze che incontrano i piani nazionali ed europei di contrasto al cambiamento climatico. |
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