Alberi favolosi
Storie di prodigi vegetali nella cultura romana
L’albero di Virgilio
Quando Virgilio venne al mondo, una mattina di ottobre dell’anno 70 a.C., i suoi genitori provvidero diligentemente a piantare un ramo di pioppo nel luogo in cui la nascita si era verificata. Nel fare così, i due si conformavano a un’usanza diffusa nell’area della Bassa Padana nella quale il poeta era nato: è suggestivo immaginare che ognuno dei borghi che punteggiavano quell’area fosse circondato da un boschetto di pioppi, una sorta di doppio botanico o di anagrafe vegetale della sua popolazione. Senonché, nel caso di Virgilio si verificò qualcosa di straordinario: in brevissimo tempo, infatti, il pioppo crebbe sino a raggiungere l’altezza di alberi piantati molto tempo prima, se non addirittura a superarla, segno che il bambino cui quella pianta era legata avrebbe avuto un destino altrettanto eccezionale.
Nelle storie che circondavano la nascita del più grande poeta latino di tutti i tempi, del resto, non si trattava dell’unico prodigio relativo alla sfera vegetale: un altro racconto riferiva, infatti, che la notte prima del parto la madre di Virgilio aveva sognato di generare un ramo di alloro. Appena venuto a contatto con il terreno, il ramo si sviluppava poi in un lampo, trasformandosi in un albero ricco di fiori e frutti di ogni specie. Una visione che certo Magia – così si chiamava la donna – non ebbe tempo di sottoporre a uno dei tanti interpreti dei sogni che popolavano il mondo antico, ma che si presentava piuttosto trasparente nel suo linguaggio simbolico: l’alloro era la pianta di Apollo, divinità della musica, del canto e della poesia, e dunque preannunciava il talento letterario fuori dal comune di Virgilio, mentre la varietà di fiori e frutti che ornava la pianta alludeva con ogni probabilità ai diversi generi letterari – poesia pastorale, didascalica, epica – nei quali quel talento si sarebbe manifestato.
La palma di Romolo
Ma il motivo dell’albero come doppio vegetale o identità esterna di un individuo d’eccezione non si limita ai soli racconti sulla nascita di Virgilio. Un sogno analogo a quello di Magia aveva fatto Ilia o Rea Silvia quando ancora non sapeva di essere gravida dei gemelli Romolo e Remo: nel suo caso si trattava di due palme, simili ma di diversa grandezza, una delle quali si innalzava tanto da toccare il cielo ed estendere i propri rami sino a fare ombra a tutta la terra. Un’immagine il cui significato doveva restare oscuro alla sacerdotessa di Vesta, ma che i lettori contemporanei di questa storia decifravano senza difficoltà: la palma più grande profetizzava non solo il destino di Romolo, ma anche quello della sua fondazione, che avrebbe esteso il proprio dominio su tutte le terre conosciute e portato alle stelle la gloria dei Romani.
Nel giardino dei Cesari
Un’altra vicenda affascinante riguardava poi niente meno che Livia Drusilla, moglie di Augusto e First Lady della prima coppia imperiale nella storia di Roma. Quando era ancora una giovane sposa, a Livia era capitato di vedersi piovere in grembo, rilasciata da un’aquila che la teneva serrata nel becco, una gallina bianca come la neve, che a sua volta stringeva un ramoscello di alloro. Persuasa che si trattasse di un evento prodigioso, Livia stabilì di allevare la gallina e di piantare il ramo nel giardino di Prima porta, sulla riva destra del Tevere, a poca distanza da Roma, dove possedeva una splendida residenza: ecco che dall’animale nacque una discendenza così abbondante che quella villa prese il nome di Ad gallinas. Dalla fronda si sviluppò un vero e proprio boschetto, che forniva ad Augusto l’alloro con il quale il principe si cingeva il capo durante le cerimonie del trionfo.
Nei decenni successivi, accadde poi che anche i successori di Augusto, membri della prima dinastia imperiale romana, piantassero ciascuno il proprio albero nel parco della villa e ricavassero da lì le proprie corone di allor .
Il “doppio vegetale” degli imperatori
Ma la storia iniziata con la gallina di Livia aveva in serbo altre sorprese. Gli osservatori più attenti si erano resi conto infatti che esisteva una puntuale corrispondenza tra le vicissitudini di quegli allori e la sorte dei principi che li avevano messi a dimora nel terreno: quando si avvicinava per ognuno di essi il momento della morte, anche l’albero corrispondente iniziava a deperire. Quando poi, con la caduta di Nerone, fu la dinastia nel suo complesso a estinguersi, anche il laureto di Prima porta seccò nella sua interezza, così come morirono, fino all’ultima, le numerosissime galline bianche che razzolavano nei suoi pollai. Nel mentre, a Roma, fulmini si abbatterono sulle statue dei diversi imperatori custodite nel tempio dei Cesari mozzandone le teste, come se tutti i doppi di quegli imperatori, minerali o vegetali che fossero, venissero colpiti nello stesso istante.
Di lì a poco, dopo le turbolenze legate alla fine dei Giulio-Claudi, una nuova dinastia si affermò al vertice dell’impero, quella dei Flavi, che non volle rinunciare a dotarsi a sua volta di una mitologia arborea, non troppo dissimile da quella del fondatore Augusto. Ecco dunque affiorare nelle fonti la storia di un cipresso prodigioso, prima crollato al suolo senza ragioni apparenti, poi tornato improvvisamente in piedi in coincidenza con l’avvento al potere di Vespasiano, fondatore della dinastia, e infine caduto nuovamente all’incirca trent’anni più tardi, allorché, con la liquidazione violenta di Domiziano, anche la parabola della dinastia flavia si esauriva nel sangue. Un secondo racconto riguardava invece una grossa quercia che generava un ramo ogni volta che la madre di Vespasiano partoriva, ramo la cui consistenza preannunciava la sorte più o meno fortunata del relativo bambino. Così, se quello di una sorellina del futuro imperatore, che non superò l’anno di vita, appariva esile e seccò quasi immediatamente, quello di Flavio Sabino, fratello di Vespasiano e destinato a ricoprire la prestigiosa carica di prefetto dell’urbe, si presentava come solido e robusto; quello nato in coincidenza con lo stesso Vespasiano, poi, era talmente grande da sembrare a sua volta un albero.
Miti legati agli alberi
Storie come quelle che abbiamo raccontato si potrebbero facilmente moltiplicare, ad esempio ricordando le due piante di mirto che sorgevano a Roma davanti al tempio di Quirino, chiamate rispettivamente “patrizia” e “plebea” perché la loro fioritura coincideva con le fortune dei due ceti in cui era divisa la società; oppure, la figura dell’ultimo esponente della dinastia dei Severi, Alessandro, la cui morte fu preannunciata dal crollo di alcuni alberi di fico che producevano la varietà chiamata appunto “alessandrina”. Ancora, le vicende di un altro fico, detto Ruminale, lo stesso tra le cui radici si era incagliata la cesta che conteneva i gemelli Romolo e Remo e che a sua volta rispecchiava le sorti della città alla quale era fatalmente legato.
Se poi volessimo allargare lo sguardo e prendere in considerazione altri aspetti relativi alla presenza dell’albero nell’immaginario dei Greci e dei Romani, potremmo richiamare i miti sugli alberi antropogonici come la quercia che, all’alba della storia, aveva generato dai propri tronchi l’umanità delle origini, ma anche le dottrine mediche secondo le quali nel ventre materno l’embrione cresce e si sviluppa alla stessa stregua di una pianta, al punto che il cordone ombelicale può considerarsi una sorta di radice, la cui caduta segna la definitiva acquisizione della forma umana.
Un ulteriore esempio sono i miti di metamorfosi, che vedono giovani uomini e donne trasformarsi in fiori o in alberi, dal narciso alla rosa, dal cipresso alla pianta della mirra o, infine, i molteplici nessi che legano questa o quella specie vegetale a una divinità, la quercia a Giove, l’alloro, come abbiamo già ricordato, ad Apollo e così via.
L’ “altro” vicino: la continuità fra umani e piante
Nel loro complesso, queste storie rimandano a una cultura che intesse tra uomini e piante una rete di relazioni, sottolineando in questo modo la prossimità o la vera e propria continuità tra gli uni e le altre. Come è stato efficacemente detto, per Greci e Romani piante e alberi non sono l’assolutamente altro, ma “l’altro per differenza”. Il che, beninteso, non significa che le società antiche non abbiano praticato forme di sfruttamento intensivo e distruttivo dell’ambiente naturale, con l’abbattimento su larga scala delle foreste per fare spazio alle coltivazioni o per fornire materie prime all’industria e alla guerra, o con forme di inquinamento dell’aria e dall’acqua certo infinitamente meno invasive rispetto a quelle cui la nostra modernità ci ha abituato, ma tali, in ogni caso, da suscitare allarme e sollecitare misure di contenimento e compensazione. Al tempo stesso, non c’è dubbio che storie come quelli che abbiamo raccontato sono anche indice di una cultura nella quale mondo umano e universo vegetale non sono divisi da uno iato incolmabile, che assegna soltanto al primo lo statuto di res cogitans, mentre fa del secondo una mera estensione materiale della quale si può disporre a piacimento. Una cultura nella quale un poeta poteva ammonire ad allontanare la scure già pronta ad abbattere una quercia «perché i nostri nonni ce l’hanno insegnato, sono state loro le prime madri del genere umano», o nella quale il destino di un poeta poteva essere raccontato dalle avventure vegetali di un pioppo svettante nel cielo.
Per approfondire questi temi, si veda anche Mario Lentano, «Vissero i boschi un dì». La vita culturale degli alberi nella Roma antica, 2024.
Referenze iconografiche: Wikimedia Commons. Giardino, I sec. a.C., affresco dal Triclinuim,
part. dalla Villa di Livia a Prima Porta, Roma, Museo Nazionale Romano, Palazzo Massimo