Sapere come è fatta un’opera d’arte, quali siano state le tecniche utilizzate dall’artista, quali siano le sue condizioni “di salute”: sono informazioni fondamentali sia per assicurare che questa sia preservata per il futuro, sia per eventuali interventi di restauro. Nei decenni sono state affinate le tecniche che permettono un’analisi non invasiva dei manufatti artistici di ogni tipo, fornendo informazioni inestimabili a restauratori e storici dell’arte, permettendo quelle corrette preservazione e conservazione che sono alla base della possibilità di fruizione di un’opera. Nel caso in cui le tecniche non invasive abbiano lasciato quesiti ancora insoluti, gli esperti fanno una valutazione se sia necessario, per il bene dell’opera, sacrificarne qualche piccolo campione. Non è un caso se le occasioni di restauro sono spesso momenti nei quali gli esperti fanno nuove scoperte sull’oggetto stesso.
Nel tempo, le tecniche che permettono analisi non invasive sono molto migliorate. C’è però un problema: spesso si tratta di analisi fattibili solo in laboratorio. Il trasporto di un’opera d’arte, tuttavia, è un’operazione complessa, talvolta impossibile o comunque molto rischiosa. Il loro inestimabile valore fa sì che, anche nel caso fortunato di oggetti di piccole dimensioni e che godano di un buono stato di salute, i costi assicurativi siano molto alti. Può sembrare un problema risolubile, ma molto spesso ci si trova davanti a casi di opere fragili, ingombranti o pesanti (o tutte e tre le cose insieme), per non parlare del problema posto dagli affreschi e dalle pitture rupestri. Questa difficoltà a trasportare un’opera d’arte diventa una barriera (talvolta insormontabile) per un suo studio approfondito.
Se non possiamo portare le opere d’arte in laboratori scientifici in cui analizzarle con i migliori strumenti tecnologici a nostra disposizione, dobbiamo portare le nostre migliori strumentazioni nei luoghi della cultura, come musei, chiese, centri di restauro, scavi archeologici.
È su questa spinta che, negli ultimi anni, molte tecniche, grazie allo sviluppo di strumentazione portatile, si sono spostate “sul campo” (museo, chiesa, scavo…). Per quanto le prestazioni di queste versioni “mobili” siano talvolta limitate rispetto alla corrispondente strumentazione da laboratorio, in questo modo si riesce ad analizzare opere che altrimenti non sarebbero accessibili.
Tra le tecniche non invasive per lo studio delle opere d’arte, di particolare interesse sono quelle legate all’ analisi con fasci di ioni (Ion Beam Analysis o IBA). Si tratta di una tipologia di studi che utilizza fasci di particelle (protoni o altri ioni) prodotti da un acceleratore per ottenere informazioni sulla composizione dei materiali. Alla base c’è il processo fisico dell’emissione di radiazione di vario tipo (raggi X, raggi gamma, deflessione di particelle del fascio stesso ecc.) quando il campione da analizzare viene colpito dal fascio accelerato. Questa radiazione rappresenta una sorta di impronta digitale del materiale che l’ha emessa, e quindi ci fornisce informazioni preziose sull’opera d’arte, come gli elementi chimici presenti (anche in tracce), la loro concentrazione, la loro distribuzione in profondità ecc. Vale la pena ricordare che, ad esempio, i colori erano fabbricati artigianalmente dai pittori, e che conoscere la loro composizione è fondamentale per poter intervenire correttamente su un’opera.
Le informazioni raccolte in questo tipo di analisi possono essere utili per tanti motivi:
Le analisi IBA sono quindi strumenti potenti per lo studio del patrimonio culturale; il problema principale legato al loro utilizzo è che, per avere un fascio di particelle accelerate, serve un acceleratore di particelle: questo è in genere molto ingombrante (un “piccolo” acceleratore per applicazioni è lungo più di venti metri, pesa una decina di tonnellate e “consuma” decine di kW!) e non può in alcun modo essere trasportato nel luogo in cui l’opera è conservata. Nei sotterranei del Louvre esiste un acceleratore di questo tipo, operativo dalla fine degli anni Ottanta del secolo scorso e che fino a ora è stato l’unico a essere utilizzato per lo studio esclusivo di opere d’arte. Presso la Sezione di Firenze dell’INFN, al Polo Scientifico di Sesto Fiorentino, dai primi anni 2000 è operativo il Laboratorio per l’Ambiente e Beni Culturali (LABEC), operato congiuntamente da INFN e Università di Firenze. Al LABEC, oltre ad altra strumentazione, è in funzione un acceleratore (in foto), dove le ricerche sulle opere d’arte sono svolte congiuntamente all’Opificio delle Pietre Dure (OPD) di Firenze.
© LABEC, Laboratorio di tecniche nucleari per l’Ambiente e i BEni Culturali
La macchina acceleratrice in funzione a Firenze (come quella presso il Louvre) è un acceleratore lineare, cioè uno strumento capace di produrre ioni o particelle subatomiche cariche e accelerarle verso un bersaglio a velocità che si avvicinano a quella della luce (energie di qualche MeV) in un percorso lineare. Il trasporto e l’accelerazione avvengono in un tubo a vuoto sfruttando campi elettromagnetici. Nelle tipiche applicazioni il bersaglio viene inserito nel tubo a vuoto, ma questo è quasi sempre impossibile quando si ha a che fare con beni culturali, dove gli oggetti sono in genere troppo fragili o troppo ingombranti per essere messi sottovuoto. In questo caso il fascio accelerato viene estratto in aria attraverso una membrana sottilissima (0.0005 mm) in nitruro di silicio, detta finestra di uscita. L’estrazione avviene subito prima del punto di misura, così da poter mantenere in aria l’oggetto da analizzare (vedi figura 1).
Dall’esperienza decennale del LABEC, e da una serie di avanzamenti nelle tecniche di accelerazione, è nata l’idea di costruire il primo acceleratore di particelle trasportabile. L’INFN e il CERN da una parte, insieme all’Opificio delle Pietre Dure (OPD) dall’altra, hanno ideato uno strumento pensato per essere applicato ai beni culturali da installare nei laboratori dell’Opificio che, ogni anno, ospitano opere fra le più pregiate del mondo per i necessari trattamenti di restauro. Il progetto del Movable Accelerator for Cultural Heritage In-situ Non-destructive Analysis (MACHINA) prevede che questo acceleratore potrà essere portato, quando necessario, anche presso “pazienti” che non possono essere spostati.
L’obiettivo del progetto (iniziato nel 2017, finanziato per la parte CERN internamente, e per la parte INFN e OPD dal Ministero della Ricerca) è stato di costruire uno strumento leggero, robusto, con componenti a basso costo e con bassa potenza assorbita. Lavorando in maniera sinergica, il CERN ha realizzato le cavità di accelerazione a radiofrequenza, mentre l’INFN ha progettato e realizzato la meccanica, l’elettronica, il sistema di controllo e di rivelazione.
Fig. 3: schema di MACHINA. Da sinistra: la sorgente (RF source), il trasporto a bassa energia (LEBT), le cavità acceleratrici (HF-RFQ),
il trasporto ad alta energia (HEBT), la stazione di rilevazione (End station) e l’oggetto da analizzare (sample).
Rendering di Nicola Amico, PRISMA
Guardando la figura 3 da sinistra verso destra, possiamo seguire il percorso degli ioni (protoni): prodotti nella sorgente (RF Source), passano nella linea di trasporto a bassa energia (Low Energy Beam Transport, LEBT) verso il modulo acceleratore (High Frequency Radio Frequency Quadrupole, HF-RFQ), che li spinge attraverso il trasporto ad alta energia (High Energy Beam Transport, HEBT) verso la finestra di estrazione, da cui raggiungono l’opera d’arte da analizzare. Vediamo ora più in dettaglio di cosa si tratta.
Sorgente e trasporto a bassa energia
I protoni sono estratti da una piccola bombola di idrogeno per mezzo di una sorgente a radiofrequenza. Il campo elettrico a radiofrequenza fa oscillare gli elettroni liberi naturalmente presenti nel gas, che ionizzano il gas e creano un plasma (gas ionizzato). Un potenziale elettrico estrae i protoni così prodotti verso il canale dell’acceleratore.
Cavità acceleratrici
Le cavità acceleratrici di MACHINA sono due quadrupoli a radiofrequenza (HF-RFQ). Semplificando molto, un campo elettromagnetico oscillante accelera i protoni fino a 2 MeV, separandoli in “pacchetti” e mantenendoli vicini all’asse della linea di fascio (focalizzandoli). Per un approfondimento su come funziona un acceleratore a RF, si veda [4].
Trasporto ad alta energia e punto di misura
I protoni accelerati passano attraverso l’ultimo stadio di accelerazione, nel quale si controllano l’intensità e la forma del fascio, focalizzando allo stesso tempo i protoni sul bersaglio con una “lente” (una coppia di quadrupoli magnetici). Il fascio attraversa la finestra di uscita e arriva finalmente sul bersaglio da analizzare, in quello che si chiama “punto di misura”. Qui, la radiazione e le particelle emesse in seguito all’impatto del fascio con il materiale dell’oggetto sono raccolte da una serie di rivelatori, che ci aiutano a svelare i segreti dell’opera d’arte in esame.
Fig. 4: A- Foto di MACHINA completo dei sistemi di pompaggio e dell’elettronica, nella stessa posizione dello schema riportato in figura. A sinistra è visibile la sorgente, mentre a destra la fine del canale da cui escono i protoni. B- Una possibile configurazione di misura, con l’oggetto da analizzare posto a una distanza di circa 1 cm dalla fine del canale.
© INFN-CHNet
Lo strumento, disegnato in modo da essere intrinsecamente sicuro dal punto di vista della radioprotezione, ha ottenuto le certificazioni necessarie per essere utilizzato. Nel frattempo, per tenere fede al suo nome, ha già viaggiato un certo numero di volte in furgone tra Firenze e Ginevra, mostrandosi perfettamente all’altezza della vita da “nomade” per cui è stato progettato: ogni volta è rientrato in funzione senza problemi.
Mentre scriviamo, MACHINA si trova nel Polo Scientifico di Sesto Fiorentino per gli ultimi test su campioni e l’Opificio delle Pietre Dure sta attrezzando uno spazio adatto ad ospitarlo. Tanti “pazienti” illustri lo aspettano, e gli studiosi sono impazienti di cominciare questa piccola “rivoluzione copernicana”. Intanto a Sesto si sta lavorando a MACHINA2, un acceleratore gemello e destinato al Gran Sasso Science Institute (L’Aquila). Forse, nel futuro, non sarà difficile incontrare in uno dei tantissimi edifici storici italiani restauratori che, anche grazie a un piccolo acceleratore, conservano la nostra memoria.
Referenze iconografiche: Foto Cover ©INFN-CHNet