Ossi di seppia, la prima raccolta di Montale, viene pubblicata a Torino, da Piero Gobetti, nel 1925, quando il poeta è ormai prossimo al suo trentesimo compleanno. Stampata in mille copie, contiene 43 poesie, una quindicina delle quali già erano apparse, seppure in stesure differenti, su importanti riviste.
I testi risalgono per lo più agli anni Venti, anche se non mancano prove più antiche, alcune delle quali, come Meriggiare pallido e assorto, sono collocabili intorno al 1916.
Montale apparteneva a una ricca famiglia genovese, proprietaria di una solida azienda specializzata nel commercio di vernici e prodotti chimici: ultimo di cinque figli, a differenza dei fratelli, Eugenio è riluttante all’idea di impiegarsi nella ditta paterna, non avvertendo una sincera vocazione per simile attività.
Come emerge dalle lettere della sorella Marianna, egli scopre – intorno ai vent’anni – il piacere della lettura, che gli permette di assecondare e approfondire la propria sensibilità, i propri tormenti e soprattutto, come scrive Marianna, il proprio desiderio di guardare le cose dall’alto. Alla sorella, che condivide la sua passione letteraria e filosofica, Montale confida gli stati d’animo ricorrenti (irresolutezza, incapacità di accontentarsi, incertezza, sfiducia) che lo portano a diffidare dei valori e delle verità di tutti, e a percepire una propria insufficienza rispetto alla vita.
In una lettera all’amica Minna Cognetti, dell’11 marzo 1917, Marianna fa un ritratto del fratello che fissa, con stupefacente chiarezza, la condizione di partenza di molte sue poesie: «C’è Eugenio più pensieroso e affettuoso del solito […]. Mi pare in un momento di grande vita, di tensione. Cerca. Piuttosto che la verità filosofica, la verità artistica. Legge con un’avidità che è godimento e sofferenza, quasi. Perché cerca sé stesso, la sua via… Che cosa sarà di questo ragazzo così inadatto alla vita pratica, così sdegnoso e orgoglioso, così bambino e assetato di tenerezza? Che non si adatta mai a una vita mediocre e comune?».
Maggiore di due anni, Marianna ha intuito che nel cuore del fratello si agita qualcosa di non comune: Eugenio «è speciale – scrive in un’altra lettera –. E appunto per questo soffre di più». In primo luogo, la sua ribellione alle aspettative e alle pretese della famiglia deriva dal desiderio di trovare, nella vita, il proprio vero volto e la propria unica strada.
Ma ciò a cui egli aspira non è una verità filosofica, oggettiva e universale – «la parola che squadri da ogni lato / l’animo nostro informe», «la formula che mondi possa aprirti» (come si legge nella poesia Non chiederci la parola…) –, bensì una «verità artistica», ossia un’intelligenza di sé sincera, personale e privata, raggiunta ed espressa per mezzo della poesia: basata non sul ragionamento, ma sull’intuizione, sul brivido della propria anima di fronte al mistero dell’esistenza. «Io – confessa Montale alla sorella – sono un amico dell’invisibile e non faccio conto che di ciò [non do importanza che a ciò] che si fa sentire e non si mostra; e non credo e non posso credere a tutto quello che si tocca e che si vede».
Di questo convincimento la raccolta Ossi di seppia è lo svolgimento e la dimostrazione. Come documenta il carteggio con l’amico Sergio Solmi, la scrittura in versi è per il giovane Montale l’occasione privilegiata per dare voce alle proprie contraddizioni e alle proprie paure, alla propria solitudine e alla propria apatia – «sono uno scettico pieno di vuoto», scrive il 10 gennaio 1920 –, trovando consolazione nella sincerità e nell’onestà dell’espressione, in cui egli prende coscienza di sé e riscopre, così, il desiderio di continuare a vivere.
Ma – si premura di precisare – la sincerità e l’onestà a cui egli ambisce si ottengono solo a prezzo di «artificio»: cioè, come si legge in una lettera dell’aprile del ’21, di una paziente ricerca formale che consente di «raggiungere una verità più eterna di quella che a noi pare di servire confessandoci e autobiografandoci a tutto spiano».
Rispetto alla vita di tutti i giorni e alla tentazione di restituirne un nudo “diario”, la poesia nasce, per Montale, dal bisogno di guardare e guardarsi con un occhio più fermo e distante. Per effetto della musica dei versi, della ricerca formale di cui sono il risultato, i particolari, copiati “dal vero”, diventano i simboli del proprio mondo interiore.
E allora, nelle impressioni dei primi lettori, poesie come I limoni, L’agave su lo scoglio, Riviere e tante altre potevano parere il manifesto di un preciso atteggiamento, in bilico tra dolore e speranza, tra il tormento di un presente solitario e desolato e il presentimento di un segreto nascosto, che costituisce, a tutti gli effetti, il cuore affascinante del primo libro montaliano.
Referenze iconografiche: Kaqsa234/Shutterstock