Il 2 aprile 2025, nel contesto di una cerimonia nel Rose Garden ribattezzata “Liberation Day”, il presidente statunitense Trump ha firmato l’Executive Order 14257, dichiarando l’emergenza economica nazionale e imponendo un dazio del 10 % su tutte le importazioni, così come tariffe addizionali calibrate sui paesi con i quali l’America ha ampi deficit commerciali.
Questo atto non è stato una novità per il presidente Repubblicano. Già durante il suo primo mandato, Trump si era definito “the tariff man” (l’uomo dei dazi) e aveva inaugurato una stagione di guerra commerciale contro la Cina, con dazi che nel 2019 avevano toccato il 21% medio sulle importazioni da Pechino. Tuttavia, il “Liberation Day” ha chiaramente stabilito un nuovo passo nella politica commerciale e geopolitica dell’amministrazione americana. Innescando, su vari piani, risposte dei vari paesi e contro-risposte americane (spesso una riduzione del dazio inizialmente proposto) la cui direzione non è chiara e che, al momento in cui scriviamo, sono ancora in corso.
Una cosa è ben chiara: l’azione di Trump non è solo propaganda, è l’inizio — o forse la riemersione — di un uso attivo dei dazi come strumento di politica economica e geopolitica.
Un dazio doganale è, in sostanza, una tassa applicata all’ingresso di beni provenienti dall’estero. Quando un prodotto varca la frontiera — che si tratti di automobili, acciaio, o mozzarelle — può essere soggetto a un’imposta calcolata sul suo valore o sulla quantità importata. Lo scopo di un dazio è modificare il prezzo relativo dei beni, il rapporto fra il prezzo domestico e quello dei beni importanti. Aumentandone il costo finale, il dazio rende meno competitivo il prodotto straniero rispetto a quello nazionale. In questo modo, può stimolare la produzione interna e proteggere le imprese domestiche dalla concorrenza estera.
Ma i dazi non sono uno strumento nuovo. Esistono da secoli, e la loro origine moderna si può far risalire al mercantilismo del XVII secolo, quando gli Stati europei cercavano di accumulare ricchezza controllando gli scambi commerciali. La logica era semplice: esportare molto, importare poco, e trattenere il più possibile l’oro e l’argento all’interno del paese. Da allora, i dazi hanno assunto ruoli diversi nelle politiche economiche, e continuano a essere utilizzati anche oggi, nonostante il processo di liberalizzazione commerciale avviato verso la fine della Seconda guerra mondiale, attraverso gli accordi GATT (General Agreement on Tariffs and Trade) all’interno degli accordi di Bretton Woods e, dal 1994, con la nascita del WTO (World Trade Organization).
Nei manuali di economia internazionale, si individuano almeno tre funzioni principali del dazio, che lo rendono uno strumento di politica commerciale interessante per i governi:
Tuttavia, i dazi sono anche profondamente controversi, e i loro effetti possono rivelarsi più complessi — e talvolta controproducenti — di quanto appaia a prima vista.
Per i consumatori, l’aumento dei prezzi è spesso immediato: tassando i beni importati, il costo viene scaricato lungo la filiera e finisce per riflettersi sul prezzo finale. Questo significa meno varietà, meno accessibilità, e una riduzione del benessere, soprattutto per le fasce di reddito medio-basse che dipendono da beni di consumo a basso costo.
Ma le conseguenze si fanno sentire anche sul lato produttivo. Molti beni importati sono input intermedi necessari per la produzione nazionale. Colpire questi significa penalizzare le stesse imprese locali. In un’economia integrata, colpire le importazioni significa spesso colpire le stesse imprese nazionali che assemblano, trasformano o riesportano quei prodotti. È il caso tipico del settore automobilistico o elettronico, dove le catene di fornitura si estendono su più paesi e ogni barriera doganale introduce costi e ritardi.
Inoltre, i dazi rischiano di innescare reazioni a catena. Quando un paese impone dazi, i partner commerciali tendono a rispondere con misure simmetriche: è il principio della ritorsione commerciale. In poco tempo si può passare da un tentativo di protezione interna a una guerra commerciale che danneggia tutti i partecipanti, come accaduto tra Stati Uniti e Cina tra il 2018 e il 2020.
In un mondo fondato su catene globali del valore, dove anche un singolo prodotto può contenere componenti fabbricati in dieci paesi diversi, il dazio non colpisce solo “gli altri”, ma spesso anche “se stessi”. La globalizzazione produttiva ha reso sempre più difficile tracciare confini netti tra “interno” ed “estero”, e misure pensate per rafforzare l’economia nazionale possono, paradossalmente, indebolirla.
A partire dagli anni Ottanta, e in modo ancor più marcato dopo la caduta del muro di Berlino, il mondo ha conosciuto una stagione di straordinaria integrazione economica. Complici la liberalizzazione degli scambi, la rivoluzione nei trasporti e nella comunicazione, e le riforme promosse dalle grandi istituzioni internazionali (FMI, WTO, Banca Mondiale), ha preso forma quella che oggi chiamiamo globalizzazione: una rete sempre più fitta di scambi di beni, servizi, capitali e informazioni, che ha avvicinato paesi un tempo lontanissimi. Non si è trattato solo di un aumento degli scambi commerciali, ma di una trasformazione profonda della geografia produttiva. Le imprese hanno iniziato a "spacchettare" le proprie produzioni, frammentandole lungo complesse catene globali del valore (global value chains, GVC): materie prime estratte in Africa, componenti assemblati in Asia, design in Europa e marketing negli Stati Uniti. Questo fenomeno, favorito da costi di trasporto più bassi, tecnologie digitali e dalla possibilità di coordinare a distanza manodopera e funzioni diverse, ha spinto e determinato il commercio internazionale, prioritariamente costituito da beni intermedi. Allo stesso tempo, la possibilità di spacchettare la produzione lungo la catena del valore ha allontanato i luoghi della produzione da quelli del consumo, e decretato l’industrializzazione di nuove aree del mondo e la conseguente deindustrializzazione in altre. Non sono quindi solo i flussi di commercio ad essere cambiati ma la geografia della produzione a livello globale.
Il processo di globalizzazione e maggiore integrazione dei mercati, pur imperfetta, ha resistito per decenni dopo la Seconda guerra mondiale, ed era sembrato inarrestabile dopo la caduta del muro di Berlino e l’ascesa della Cina come giocatore globale. Tuttavia la crisi economica del 2007-2008 ne aveva messo in luce le fragilità. Nato nel mercato immobiliare statunitense, lo shock si propagò rapidamente in tutto il sistema bancario e finanziario globale. Il commercio mondiale subì un crollo significativo, non solo nei paesi dati per fragili, ma nell’economia reale e nei consumi. Le imprese, interdipendenti per materie prime, componentistica e finanza, furono costrette a ridimensionare la produzione. E la caduta della domanda globale di beni e servizi aveva avuto come conseguenza diretta il crollo del commercio mondiale. Questo, tra la fine del 2008 e il 2009, ha registrato una flessione eccezionale: il volume degli scambi è diminuito di più del 10%, il calo più drastico dal secondo dopoguerra — ampiamente superiore alle flessioni precedenti, dove la riduzione media non superava il 2–5%. A livello sociale, le disuguaglianze sono aumentate, e si sono fatti strada i primi movimenti critici nei confronti della globalizzazione. È in quel momento che sono comparsi i primi segnali di attrito: piccoli sassolini nell’ingranaggio di un processo che, pur avendo portato benefici ai consumatori — grazie a prodotti più accessibili e a prezzi contenuti — ha anche accentuato le diseguaglianze interne. La globalizzazione ha infatti premiato alcuni gruppi sociali e territori, ma ne ha penalizzati altri, generando fratture in termini di reddito, ricchezza e opportunità. In questo contesto, hanno iniziato a emergere movimenti populisti, che hanno trovato espressioni politiche forti nella Brexit e nella prima amministrazione Trump.
La seconda ferita profonda è arrivata con la pandemia di Covid‑19 nel 2020, con un crollo di circa l’8%. Quello che si è presentato inizialmente come un blocco “locale” — la chiusura industriale nella provincia di Hubei, fulcro delle catene globali dell’elettronica e dell’auto — si è trasformato in una crisi simmetrica. Non è stato come nel 2008, quando solo alcuni paesi (quelli occidentali) hanno subito un contraccolpo: questa volta, tutti sono stati travolti insieme. Allo stesso tempo, la pandemia ha reso manifesto che le catene globali del valore (GVC) — concatenate e fragili — possono aver amplificato uno shock locale in una crisi mondiale. I blocchi in Cina hanno causato interruzioni nelle forniture, hanno ridotto gli investimenti e hanno provocato una caduta della domanda: gli effetti, infatti, si sono riflessi in tutte le fasi della produzione e del consumo globali. Politicamente e socialmente, le conseguenze sono state evidenti: la pandemia ha riattivato la discussione sul ruolo dello Stato come attore centrale, capace non solo di mitigare la crisi, ma anche di progettare una globalizzazione più controllata e resistente. Il tema delle filiere sicure, dell’autonomia strategica e del ruolo pubblico nei settori critici — salute, tecnologia, energia — è oggi all’ordine del giorno. Inoltre, ha posto all’attenzione una discussione già in essere, dopo la crisi del 2008, sul processo di integrazione produttiva e riorganizzazione globale della produzione.
Crisi su crisi — dalla Grande Recessione del 2008 alla pandemia di Covid-19, passando per la guerra commerciale USA–Cina e il conflitto in Ucraina — hanno mostrato quanto questo modello fosse fragile. Le interruzioni nelle forniture, l’aumento dell’incertezza geopolitica e le tensioni sulle materie prime hanno acceso il dibattito su una revisione profonda del modo in cui produciamo e commerciamo a livello globale.
Sono così emersi nuovi termini:
Questi concetti riflettono l’idea di ridurre la dipendenza da paesi considerati rischiosi, come nel caso della Cina per le terre rare o della Russia per l’energia. Ma c’è di più: in un contesto di transizione ecologica e digitale, anche le considerazioni ambientali e tecnologiche stanno spingendo verso forme di regionalizzazione controllata. Un esempio? L’UE ha lanciato l’idea di “autonomia strategica aperta”, per rafforzare le sue filiere senza chiudersi al commercio.
Tuttavia, questa evoluzione non ha portato (ancora) a una vera deglobalizzazione. I dati mostrano che, nonostante gli shock, le GVC hanno resistito: il commercio globale è tornato ai livelli pre-pandemia, e le importazioni dalla Cina sono aumentate anche in Europa. In realtà, per alcuni autori, quello che stiamo osservando è un fenomeno più sfumato, quello che The Economist ha chiamato, nel 2019, slowbalization: una globalizzazione più lenta, selettiva, guidata da logiche di efficienza, sicurezza e sostenibilità, più che dalla ricerca del mero profitto. Ed è in questo contesto che i dazi tornano ad avere un ruolo: non solo economico, ma strategico. Servono a spostare equilibri, proteggere filiere, negoziare nuove alleanze.
I dazi introdotti da Donald Trump non sono stati soltanto strumenti economici. Sono stati, piuttosto, il segno visibile e immediato di un mutamento più profondo: la progressiva crisi dell’egemonia americana. Per decenni, gli Stati Uniti hanno rappresentato il centro del sistema economico globale, dettando regole, orientando istituzioni, modellando valori e visioni del mondo. Ma oggi quell’ordine si sta incrinando, e la reazione americana appare sempre più unilaterale, assertiva, muscolare.
In economia politica, l’egemonia non si riduce alla sola forza militare o al primato produttivo. È la capacità di organizzare lo spazio globale intorno ai propri interessi, facendone apparire “naturali” le regole. Quando questa capacità si logora, emergono tensioni, contro-narrazioni, sfide sistemiche. È in questo contesto che vanno letti sia i dazi sia la retorica del “Make America Great Again”.
Il processo di globalizzazione, soprattutto nella sua fase neoliberista dagli anni ’90 in poi, ha favorito — e insieme è stato favorito da — l’ascesa degli Stati Uniti come potenza egemone: prima nel blocco occidentale, nel secondo dopoguerra, poi, sia pure brevemente, dopo il crollo dell’Unione Sovietica. La globalizzazione ha consacrato gli Stati Uniti come hub finanziario, tecnologico e culturale del mondo. Tuttavia, e in modo quasi paradossale, proprio l’espansione delle catene globali del valore e la ricerca di nuovi mercati — spinta dal desiderio di efficienza e di profitto — ha aperto la strada all’ascesa di un nuovo grande attore globale: la Cina.
Inizialmente specializzata nella produzione di beni a basso contenuto tecnologico e ad alta intensità di lavoro (come il tessile), la Cina ha rapidamente scalato la catena del valore, acquisendo competenze e posizionandosi nei settori strategici ad alta tecnologia. In meno di vent’anni, è diventata il principale competitore sistemico degli Stati Uniti. La guerra commerciale non è iniziata con Trump: affonda le sue radici almeno 15 anni fa, e si è progressivamente inasprita fino ad assumere una chiara dimensione geopolitica sotto la sua amministrazione. I dazi, in questo scenario, non servono solo a contenere la concorrenza: vogliono ridefinire i confini geo-economici dell’egemonia americana.
A confermare questo mutamento, bastano pochi indicatori presi dalle statistiche della Banca Mondiale e del Fondo Monetario Internazionale: la quota di PIL mondiale detenuta dagli USA è in calo, mentre quella cinese è cresciuta con continuità; l’Unione Europea è rimasta stabile, ma marginale nel confronto geopolitico. Ancora più significativo è il dato valutario: il dollaro ha perso terreno nelle riserve internazionali, scendendo dal 71% nel 1999 al 58% nel 2023, mentre lo yuan ha superato il 3%, dopo l’ingresso nel paniere SDR del Fondo Monetario Internazionale nel 2016. L’egemonia americana non poggia più su un predominio economico indiscusso, e lo squilibrio tra centralità storica e nuove sfide globali si fa sempre più evidente.
Nel caso di Trump, dunque, il ritorno ai dazi non è solo economico, ma strategico. È parte di un tentativo esplicito di ribaltare le regole del gioco costruite negli ultimi decenni, con meno multilateralismo e più negoziato di forza. È l’inizio di un nuovo corso che interroga — e forse supera — la globalizzazione così come l’abbiamo conosciuta.
Ridurre e riorganizzare le catene globali del valore significa anche rinunciare ai vantaggi della specializzazione e della diversificazione. In un mondo profondamente interdipendente, non si tratta di tornare indietro, ma di ripensare la globalizzazione, renderla più resiliente, più equa, più compatibile con le sfide del presente: ambientali, sociali, geopolitiche.
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