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Lingua, linguaggio e genere

Scritto da Stefania Cavagnoli | apr 7, 2023

Parlare di lingua e di genere significa pensare a tutto tondo, coinvolgendo discipline e teorie diverse, in un primo momento considerate incompatibili. Parlare di lingua e genere, infatti, significa parlare di cultura nel suo complesso. Significa parlare in primo luogo di persone, di relazioni, di immagini e di credenze. Significa parlare di educazione. Significa, prima che costruire, la necessità di decostruire, o di disinnescare per poter vedere le cose in modo diverso, più adeguato (Arena, 2022).

La lingua: uno strumento democratico

Il sessismo è quel fenomeno che si esprime in primo luogo attraverso la lingua; per questo motivo dobbiamo educarci ed essere educati/e alla riflessione linguistica, che ci porta alla consapevolezza di quanto esprimiamo e sosteniamo consciamente.

Partire dall’educazione linguistica di genere vuol dire limitare fenomeni di violenza, ricalibrare le posizioni, trasmettere le memorie in modo corretto, rappresentare le donne in modo adeguato. Significa comprendere il valore delle parole, uno strumento democratico, spesso usato in modo spontaneo, sicuramente culturale, che può avere finalità buone e cattive, può essere usato in modo giusto o ingiusto. Uno strumento che forma stereotipi, ma che allo stesso tempo aiuta a riflettere su tali simboli e modelli, con spirito critico. Per questo motivo è necessario affrontare il tema in modo transdisciplinare, considerando diversi piani, diversi frame interpretativi.

Non basta la riflessione della linguistica, perché

le disuguaglianze di genere sono dappertutto: in televisione, negli emoji, nelle professioni, nei giocattoli, nei cartoni animati, nelle opere scultoree, nelle vie delle città, sulle banconote, nei testi scolastici, nella medicina, negli esperimenti scientifici e nel racconto storico. E in tale realtà diventiamo grandi, considerandola la normalità. In tal senso, ci sembra normale che il maschile sia universale, il non marcato, mentre il femminile si realizza in contrapposizione, e quindi, costituisce la dimensione marcata, di nicchia, di minoranza (Criado Perez, 2020, p. 29).

La prova che il fenomeno della comunicazione sessista è ancora un problema sta nelle normative internazionali e nazionali che stabiliscono l’uguaglianza di genere.

Una necessità di cambiamento, perché le società perpetuano modelli sessisti, a partire dall’espressione linguistica. Già negli anni Settanta del Novecento gli studi della sociolinguistica mettevano in evidenza le dissimmetrie semantiche fra maschile e femminile, legate all’uso sia dei sostantivi (maestro vs maestra, il governante vs la governante, segretario vs segretaria: si noti come in questi binomi il primo ha valore più prestigioso del secondo), sia degli aggettivi (il buon uomo vs la buona donna, l’uomo facile vs la donna facile: qui l’accezione del primo termine è positiva, quella del secondo negativa, nonostante si tratti solo di un cambio di categoria di genere). […]

La via, una delle vie, è quella di usare la lingua in modo adeguato. Farne un uso che rappresenti effettivamente la realtà, nella quale le donne lavorano, e la loro prestazione viene ignorata; quando le donne non vengono ignorate, sono descritte sempre in relazione agli uomini, considerati la pietra di paragone, oppure tramite stereotipi di genere, spesso concretizzati da un uso della lingua che deride, umilia, connota negativamente. Se adeguato, l’uso della lingua potrebbe modificare prima il modo di pensare e di conseguenza la realtà socio-politica.

Come scrive Giorgio Cardona:

attraverso questo strumento [il pensiero], io mi pongo continui modelli di conoscenza e di azione, e poiché gli elementi concreti, riconoscibili della lingua di cui mi servo sono in numero finito […] è inevitabile che la rete che essi predispongono delimiti il mio orizzonte, mi fornisca punti di appoggio, condizioni la mia visione. È questo il punto cruciale del rapporto fra linguaggio, pensiero e visione del mondo (Cardona, 2009, p. 14).

Imparare le parole

Come funziona l’apprendimento linguistico? Come impariamo ad ascoltare e parlare?

Il nostro sistema innato è predisposto all’apprendimento linguistico, secondo gli studiosi che a partire da Chomsky, negli anni Sessanta del secolo scorso, si sono occupati della questione, approfondendola e arricchendo le nostre prospettive. Chi apprende è inserito però sempre in un contesto comunicativo, nel quale sente le parole e interpreta i significati collegati. In tal senso si costruisce un vocabolario che riflette il pensiero, le credenze, le ambiguità di chi quella lingua parla e arricchisce. Vede il mondo attraverso le parole di chi gli/le sta accanto, di chi si prende cura di lui/lei, di chi insegna. Impara le parole degli/delle altri/e, e le fa proprie, credendo in tal modo di conoscere il vocabolario in modo oggettivo, non soggettivo.

Solo chi poi diventa consapevole di che cosa sia la lingua intende che non è possibile separare il significato e il significante: essi, infatti, si muovono spesso in un contesto limitato, in un’unica camera d’eco, che rafforza le convinzioni di oggettività e di normalità. Ma la lingua è cultura, è relazione, è dinamica e si adegua alle situazioni comunicative. Si impara inseriti in cornici cognitive che ci aiutano (ma ci imbrigliano) nella costruzione della conoscenza che mai è neutra, sempre segnata da concetti e significati che si esprimono attraverso le parole di quella determinata comunità linguistica. Le cornici cognitive, infatti,

conferiscono stabilità alle nostre vite, fornendo quei punti di riferimento che sono indispensabili affinché il mondo circostante ci appaia come un tutto dotato di senso. Ma le cornici cognitive ci predispongono anche ad accettare in modo automatico ciò che conferma le nostre preesistenti convinzioni, e a respingere, bollandolo come “errore”, ciò che non combacia con esse (Rajendra et al., 2007, p. 49).

D’altra parte, come sottolineano Lakoff e Johnson (2003, p. 25), qualsiasi fatto, per essere accertato da un osservatore, deve «avere una coerenza con quanto già codificato» da quello stesso osservatore, ovvero con la sua esperienza pregressa.

Le cornici cognitive, dunque, sono diverse e si rafforzano nelle credenze condivise, base per ogni stereotipo e pregiudizio. Per il/la parlante, la realtà e la sua rappresentazione arrivano a essere la stessa cosa. Un processo di naturalizzazione e allo stesso tempo di oggettivazione che fa sì che tale sovrapposizione sia considerata come una verità, e non una delle possibili realizzazioni linguistiche e rappFresentative.

Un meccanismo utilissimo nella semplificazione della conoscenza e della sua costruzione, una generalizzazione utile per alleggerire il processo conoscitivo, ma allo stesso tempo molto pericolosa per il rischio di solidificare certi modelli interpretativi e linguistici.

Tipologie di stereotipi nei testi

La via per la modifica di tali modelli è in primo luogo la consapevolezza, che nasce dalla riflessione sui testi nei quali ci muoviamo a partire dalla prima infanzia. Il testo è un’unità comunicativa, scritta, orale o iconografica, che mette in relazione le persone attraverso la lingua utilizzata. È un’unità culturale, che ha bisogno di essere interpretata sulla base di paradigmi condivisi. Ogni testo è legato ad altri testi, a cui fa spesso riferimento (intertestualità), comprensibili dalla comunità.

È il testo che accompagna da subito la vita di chi sta crescendo, a partire dalle fiabe e dai racconti dei libretti muti, senza parole. Seguono la televisione, la pubblicità, i giocattoli, i vestiti. Le bambine e i bambini si identificano nei modelli che trovano intorno a loro, per cui le bambine rischiano di convincersi velocemente che il loro ruolo è quello di cura, di attività casalinga, di dipendenza da un uomo che decide il loro destino (Cavagnoli, 2020).

Il ruolo dei libri di testo e delle storie per l’infanzia è stato studiato da Irene Biemmi, che ha individuato le seguenti caratteristiche nella creazione e nel rafforzamento degli stereotipi:

  • stereotipi relativi all’attribuzione di caratteristiche psicologiche e comportamentali differenziate a seconda del genere. In base a tali stereotipi gli uomini risultano: attivi, razionali, forti, competitivi, decisi, amanti del rischio, indipendenti, avventurosi. Le donne, al contrario, vengono “marcate” come: passive, emotive, deboli, affettuose, tenere, comprensive, impulsive, paurose;
  • stereotipi relativi alla spartizione rigida dei ruoli in ambito socio-professionale e familiare. L’uomo, tipicamente, lavora, mantiene economicamente la famiglia, si muove nello spazio pubblico; la donna si prende cura della casa, dei figli ed opera nel ristretto spazio domestico, privato (Biemmi, 2017, p. 140).

L’analisi dei testi scolastici è significativa, a livello sia di immagini, sia di narrazioni, sia ancora di esercizi di lingua. Di seguito alcuni esempi tratti da alcuni manuali che rafforzano gli stereotipi legati ai ruoli e al fisico femminile.

  1. Stereotipi legati all’aspetto. In un esercizio che chiedeva di abbinare l’inizio di una frase con il suo completamento, l’incipit “Lucia è troppo grassa” andava abbinato con “per indossare una minigonna”.
  2. Asimmetria di significati. In un esercizio in cui si richiedeva di abbinare parole e immagini una figura maschile veniva associata alla parola “uomo”, una figura femminile alla parola “mamma”.
  3. Stereotipi unicamente al femminile con rafforzamento connotativo. Si chiedeva di indicare, scegliendo tra varie possibilità, il significato di una parola femminile connotata negativamente, come ad esempio la parola “zitella”.
  4. Stereotipi legati ai ruoli. In un esercizio in cui gli alunni dovevano scegliere quali verbi sono adatti a un determinato soggetto, e quali non lo sono (ad esempio “Il sole” sorge, illumina, NON gela), le possibili scelte per il soggetto “La mamma” sono cucina, stira, tramonta; per il soggetto “Il papà”, lavora, legge, gracida.
  5. Narrazioni diverse, doppio lavoro delle madri. L’asimmetria di ruolo e lavoro tra le figure genitoriali è descritta come un dato di fatto, una situazione assodata: la mamma cucina, stira, va al lavoro, si allena in palestra, va ai colloqui con le maestre; il papà guarda la TV e lavora al computer.
  6. Stereotipi legati alle professioni. Nella spiegazione di varie professioni (il botanico, il geologo, il climatologo, lo zoologo, il cartografo, l’antropologo, il fotografo), i disegni raffigurano solo soggetti maschili.
  7. Stereotipi legati alle immagini. Le illustrazioni della vita familiare spesso ritraggono la donna intenta a svolgere faccende domestiche (cucinare, stirare, lavare i piatti…) e l’uomo a leggere o a guardare la TV.

Questi sono solo alcuni dei moltissimi esempi rintracciabili nei libri scolastici, nei quali la rappresentazione delle donne è sempre in funzione degli uomini, che si occupano della cura della casa e delle persone; quella degli uomini, invece, è una rappresentazione pesante, che costringe i ragazzi a essere sempre forti, coraggiosi, sicuri. È significativo che quando un uomo è attento alla famiglia venga soprannominato “mammo” e non papà.

Il tema dei libri di testo è stato già affrontato nel progetto POLITE (Pari Opportunità nei Libri di Testo) del 2000. In questo codice di autoregolamentazione gli editori si impegnavano a evitare discriminazioni e a promuovere la parità. Eppure, a più di vent’anni dal codice, sono molti i testi, soprattutto della scuola primaria, che presentano immagini discriminatorie, racconti non attenti al genere, esercizi stereotipati. Il tema è molto importante, considerata l’età degli/delle apprendenti, che sono in una fase di costruzione del sapere e attribuzione di significati alle parole e alle azioni. I tempi sono maturi, anche se dovrebbero esserlo già da tempo.

Per un uso adeguato della lingua

L’obiettivo resta quello di arrivare alla parità di genere partendo dall’uso adeguato della lingua, perché la lingua che acquisiamo come L1 deriva dal sistema in cui cresciamo e dagli stimoli che riceviamo. Con i suoni, con le prime parole acquisiamo anche gli schemi cognitivi per interpretarli, e quindi con essi anche le idee dei valori di riferimento. La lingua si impara perché si è in relazione con altre persone, in primo luogo con i genitori e il microcontesto. Chi impara una lingua, a partire dalla madrelingua, acquisisce subito anche la relazione del potere che tale lingua rappresenta. Capisce l’uso delle parole e la loro differenziazione attraverso l’uso. Capisce che il maschile prevale sul femminile, e lo considera “normale”.

L’italiano possiede due generi grammaticali, femminile e maschile, e in tal senso definisce una visione del mondo binaria. Una visione che con il tempo non basta più, e che avrebbe bisogno di un adeguamento a una realtà composta di persone non binarie.

Il ruolo della scuola, delle/dei docenti e dell’istituzione è fondamentale soprattutto perché l’attività formativa è legata a un’età di crescita, nella quale le cornici cognitive si formano e si rafforzano attraverso copioni situazionali, ripetuti nei diversi contesti quotidiani, rafforzando anche l’identità di genere a cui si conformano. Tale ruolo si esplicita attraverso l’uso della lingua in classe e con la classe da parte di chi insegna, ma anche e soprattutto attraverso la scelta dei libri di testo. Nei libri, attraverso la lingua usata, vengono riproposte rappresentazioni stereotipate, ruoli di genere, relazioni interpersonali, l’idea di famiglia stessa, che contribuiscono a costruire l’identità delle persone in formazione. […]

Questo articolo è un estratto dal volume Educare alla parità, a cura di Marina Della Giusta, Barbara Poggio, Mauro Spicci (Pearson 2022), dove può trovare il testo intero chi volesse leggerlo integralmente.

Referenze iconografiche: Jantanee Runpranomkorn/Shutterstock