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Libri in classe - Zerocalcare, Dimentica il mio nome

Scritto da Massimiliano Singuaroli | apr 27, 2024

«Tutto quello che ho fatto finora mi è servito per capire esattamente come raccontare questa storia». Dimentica il mio nome, quinto libro di Zerocalcare, ovvero Michele Rech, è stato per il fumettista toscano «un punto di arrivo perché tiro le somme di quanto ho imparato negli ultimi anni, di cose che ho sperimentato, soprattutto a livello di linguaggio».

La trama

In Dimentica il mio nome l’autore affronta la storia della sua famiglia, prendendo spunto dal dolore per la morte della nonna francese Huguette. Per distrarlo dalla disperazione Zero, il protagonista, viene mandato a casa della nonna, un luogo che ha a lungo frequentato da bambino e da adolescente, a cercare un anello che sua madre le aveva donato e con il quale la nonna vuole essere sepolta. Lì, con l’amico Secco, Zero rievoca la storia della nonna e di sua madre, una vita rocambolesca che nasconde misteri, dispiaceri e avventure. Il romanzo si snoda su diversi piani temporali: quello più lontano che parte dall’infanzia della nonna e ne segue la misteriosa esistenza; quello dell’infanzia e dell’adolescenza di Zero, rievocata a punteggiare in modo autobiografico le sue storie; e quello del presente, in cui il protagonista racconta il passato all’amico e in cui si svolge il funerale della nonna.
Tra i ricordi autobiografici dell’infanzia e adolescenza del protagonista e quelli romanzati e avventurosi della sua famiglia si inserisce anche una vicenda fantastica: dal passato emergono delle brutte figure nere che vogliono catturare una volpe presente al funerale della nonna. Proprio cercando di salvare questa volpe, con l’immancabile sostegno della madre, Zero arriverà al cuore di un segreto che non poteva immaginare.

La chiave di lettura del testo

Un punto di arrivo
Le storie create da Michele Rech non sono cronache autobiografiche e i personaggi non corrispondono completamente a persone reali, ma ne traggono ampiamente spunto. Eleonora Caruso su Wired.it ricorda che «parlando del lavoro di Zerocalcare è raro sentire usare il termine autofiction, che pur sarebbe il più corretto: autofinzione, cioè la trasformazione di sé e del proprio vissuto in un’opera di narrativa».
L’autore ha interpretato questa sua opera come un punto di arrivo, la chiusura di una fase: in effetti il libro presenta diverse linee tematiche che sono accomunate dall’idea di trovarsi al punto della propria vita in cui si fanno i conti con una serie di questioni tenute aperte fino a quel momento, che segnano un passaggio a una nuova fase e comunque sanciscono la chiusura di una precedente.

Lo spunto da cui prende inizio il libro ne costituisce un esempio evidente: il protagonista deve fare i conti con il dolore della malattia e della morte di una persona cara, un momento a cui non si è preparati, soprattutto quando si è ancora giovani, un momento a cui non si vuole nemmeno pensare («La verità è che io ho un problema con il dolore»). Ma vi è anche il dolore che Zero vede nella madre, che per lui è un punto fermo, un’ancora, un tappo che chiude le angosce e non permette loro di uscire; vederla così triste per la nonna lo mette in crisi: «La morte di mia nonna mi fa male. Ma non riesco a distinguere con esattezza dove finisce il dolore per la morte in sé e dove inizia quello per come sta mia madre».
C’è il tema della storia della propria famiglia, che può essere una storia scomoda, di cui non si vuole parlare, che si cerca di dimenticare o da cui bisogna proteggersi, fatta di lacune oscure: «questa è una delle lacune della storia della mia famiglia. Io so che Suzie, la sorella di mia nonna, aveva una figlia che giocava con mia madre da piccola, e che è morta giovanissima. Ma non so come, quando o perché. Non sapevo nemmeno il nome».
I ricordi rimossi introducono il tema della memoria, in particolare delle cose brutte, di quelle tragiche: «Il dolore crea dei buchi nella trasmissione della memoria. Poi ognuno li riempie come può».
Quella del nome è una questione con cui fare i conti: Huguette era un nome che metteva in imbarazzo il piccolo Zero, perché difficile da pronunciare e oggetto di scherzi da parte degli amici e compagni («Ughetta, come la nipote di Fantozzi»): «Quant’è brutto vergognarsi del nome di tua nonna?»

«È così che si diventa uomini?»
Un filone tematico molto rilevante è inoltre quello della crescita, del diventare grandi. Rech paragona questo tema a un albero: «Da quando nasciamo, in fondo al cuore, abbiamo un seme. La pianta cresce insieme a noi, giorno dopo giorno… Tanto più rigogliosa quanto lo sono le nostre esperienze. Invecchiando però l’albero si attorciglia, il tronco si fa nodoso […] fino a che non riesci più a capire come era la pianta originale.» Posto di fronte al tema della crescita, del tempo che passa e degli anni che si accumulano, il protagonista, riflettendo sull’aspetto del viso della nonna, con saggezza commenta che «con gli anni accumuliamo facce, angolazioni, caratteri, con la vita diventiamo poligoni». Ma nello stesso tempo, ricordando una frase della nonna («non morirò finché non sarai diventato un uomo») si domanda con ansia: «e che significa? Ma poi quando si fa il passaggio da ragazzo a uomo? Possibile che non mi sono accorto che avevo finito il livello? Sicuro mi sono scordato di salvare».
Infine, c’è il rapporto con i genitori, due stili educativi diversi tra loro, una presenza costante, e una lontananza. In particolare la madre viene vista come una roccia, come una montagna che protegge la vallata, al riparo della quale cresce il figlio. Crescere, però, significa fare i conti con un cambio di prospettiva e scoprire che quel monte che protegge la vallata ha un versante nascosto: «è così che si diventa uomo o donna? Accettando che una montagna è l’insieme di quelle prospettive». Alla fine, fare i conti con questa idea, tramite il dolore, gli addii, le separazioni, porta a una consapevolezza: «impari a percepirti anche tu in modo diverso. A pensare di poter essere non solo un abitante della vallata […] ma pure il monte di qualcun altro».

Spunti di lettura

Prendendo spunto dall’idea di “fare i conti” con qualcosa di decisivo, di scomodo, di difficile da affrontare, proponiamo un percorso di lettura, che comprende due graphic novel e due romanzi, uno recente e un classico.

Zerocalcare, Un polpo alla gola, Bao Publishing, Milano 2012
Il libro racconta tre momenti della vita dell'autore, con la solita modalità dell’autofinzione accompagnata dal commento autoironico in prima persona: le elementari alla scuola Voltaire con gli amici e i compagni e i primi consiglieri, personificazioni della coscienza, David Gnomo, He-Man e Dart Fener; le superiori, sempre nella stessa scuola, seguendo gli insegnamenti di Kurt Cobain, Joe Strummer e Che Guevara; il presente, consigliato dai tre porcellini, in cui i vecchi compagni e gli amici di sempre si ritrovano per il funerale della professoressa Arbizzati. «C’ho come un groppo alla gola… Ah già, è il polpo del rimorso»: questa risposta di Dart Fener dà il titolo al libro che parla di come fare i conti con il rimorso, per piccole o grandi azioni, che segnano la nostra età, le relazioni, i nostri ricordi.

Gipi, Questa è la stanza, Coconino Press, Roma 2018
La stanza è un regalo temporaneo del padre di Giuliano: un capannone in disuso che Giuliano, Stefano, Alex e Alberto si impegnano a sistemare e utilizzare per suonare e registrare le loro canzoni, ma è un regalo temporaneo, appunto: al primo guaio che Giuliano combina, il regalo verrà tolto. I quattro amici hanno un sogno, suonare e cantare insieme, incidere un disco, sfondare nel mondo della musica. Ma il guaio lo combinano subito e il padre di Giuliano si fa restituire il regalo temporaneo. Quando sembra che la band debba abbandonare il proprio sogno, uno dei quattro trova una soluzione del tutto inaspettata. Il libro di Gipi (pseudonimo di Gianni Pacinotti), che Zerocalcare considera una specie di maestro e fonte di ispirazione, parla della necessità di fare i conti con la responsabilità per i propri errori, ma anche con le piccole e grandi delusioni delle famiglie, con le debolezze dei genitori, con la paura di non realizzare un sogno. Una storia semplice, breve, ma piena di senso.

Elizabeth Strout, Mi chiamo Lucy Barton, Einaudi, Torino 2016
Lucy, la narratrice del romanzo, è ricoverata in ospedale e riceve l’inaspettata visita della madre che non vede da molti anni. Chiacchierando con lei in un modo quasi spensierato, Lucy rievoca tanti ricordi del suo passato, l’infanzia difficile e poverissima, il matrimonio che la porta a New York, le figlie, la vocazione di scrittrice. Il libro affronta la necessità di fare i conti con la propria madre, con le incomprensioni che possono separare, con le tappe della nostra vita. Un romanzo intimo, asciutto, vero.

Dino Buzzati, Il deserto dei Tartari, Mondadori, Milano 2016 (prima edizione 1940)
«Fino allora egli era avanzato per la spensierata età della prima giovinezza, una strada che da bambini sembra infinita […] Poi si sente dire che il meglio è più avanti e si riprende senza affanno la strada. Così si continua il cammino in una attesa fiduciosa […] Ma a un certo punto, quasi istintivamente, ci si volta indietro e si vede che un cancello è stato sprangato alle nostre spalle, chiudendo la via del ritorno.» Nella Fortezza Bastiani in un territorio immaginario Giovanni Drogo si trova nella continua attesa dell’arrivo di un fantomatico nemico dalla landa deserta e montagnosa che sta attorno: inizia così a fare i conti con il tempo che passa, con le proprie scelte di vita, con la solitudine, con l’ansia per il fallimento, con l’attesa della morte. Un libro da leggere, sempre.

Referenze iconografiche:  Fona/Shutterstock