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Platone femminista? | Agorà di Sanoma Italia

Scritto da Giancarlo Burghi | nov 12, 2025

La filosofia di fronte alla questione di genere

Una storia della filosofia che voglia essere attenta alla questione di genere deve basarsi sulla convinzione che gli assetti sociali e i rapporti di potere non sono sempre e in modo meccanico la causa delle idee filosofiche. Dell’assetto politico-economico, come delle strutture sociali e familiari, le idee sono, infatti, ad un tempo, giustificazione teorica e prodotto. Il pensiero filosofico, in particolare, non è stato soltanto il riflesso di una società patriarcale ma ha anzi in gran parte contribuito a costruirla, sancendo, con un modello androcentrico, una precisa gerarchia tra uomini e donne.
Se vogliamo dunque prestare attenzione alla questione di genere non basta inserire nelle storie della filosofia delle isolate figure femminili che si sono imposte come eccezioni al monopolio maschile del sapere, perché in tal modo non si farebbe che ribadire, anche in un manuale di filosofia, l’esclusione delle donne. Si tratta piuttosto di decostruire criticamente il paradigma filosofico androcentrico, per mostrare come, nei secoli, a partire dalla filosofia antica, abbia forgiato mentalità, istituzioni e comportamenti, escludendo le donne dal sapere, dal potere e dai diritti .

 

Un esempio di didattica storico-filosofica sulla questione di genere: Platone tra femminismo e androcentrismo

Il paradigma aristotelico

La prima, più coerente ed efficace teorizzazione della subalternità della donna rispetto all’uomo si deve ad Aristotele che ha identificato una presunta natura maschile” con la ragione, l’ordine e la capacità di comando e la “natura femminile” con l’emotività e l’irrazionalità. Di qui la convinzione che l’uomo sia un «animale politico» e la donna un «animale domestico».
Con la forza della sua autorità intellettuale, Aristotele ha imposto per secoli non soltanto il modello geocentrico ma anche quello androcentrico. Rafforzato dalla filosofia tomista e, attraverso riformulazioni e varianti, dal pensiero moderno, il paradigma androcentrico ha contribuito a giustificare un assetto della società in cui la parte maschile predomina e quella femminile soggiace.

Platone femminista ante litteram?

Prima di Aristotele il pregiudizio misogino non appare con la stessa chiarezza e forza.
Nella riflessione del maestro di Aristotele, Platone, qualcuno ha visto addirittura un femminista ante litteram. È davvero così? Come è nata questa idea?

Per capirlo dobbiamo richiamare, sinteticamente, uno degli aspetti del progetto politico di Platone. Affinché lo Stato funzioni bene e la giustizia sia realizzata, Platone suggerisce, come è noto, l’eliminazione della proprietà privata e la comunanza dei beni per le classi superiori (dei governanti e dei guerrieri), così che esse, non avendo beni e interessi propri da tutelare, si dedichino più efficacemente alla gestione della cosa pubblica, al bene comune.
I governanti-filosofi, in particolare, dovranno avere case piccole e nutrirsi di cibo semplice, vivere come in un accampamento e mangiare insieme; e non riceveranno compensi, se non i mezzi necessari per vivere. Sarà loro proibito possedere oro e argento, in quanto il loro obiettivo deve essere il bene di tutti, non la felicità o l’utile di una classe. Il sistema sociale prospettato da Platone si presenta pertanto come una sorta di comunismo, che tuttavia non riguarda l’intera società, dal momento che per la terza classe (quella dei produttori) non si esclude la proprietà privata dei mezzi di produzione.             
La classe al potere, inoltre, non avrà famiglia. Estendendo i princìpi del comunismo alla sfera degli affetti, Platone ritiene infatti che i governanti debbano avere in comune anche le donne e i figli: «Le donne siano tutte comuni a tutti e nessuna abiti prevalentemente con alcuno; e comuni siano poi i figli e il genitore non conosca la propria prole, né il figlio il genitore». (Repubblica, V, 457d).
Le unioni matrimoniali (Platone è contrario al libero amore e alla sessualità promiscua) saranno temporanee e verranno stabilite dallo Stato. Tutti i bambini saranno tolti fin dalla nascita ai loro genitori, e si avrà cura sia che questi ultimi non sappiano quali sono i loro figli, sia che i bambini ignorino quali sono i loro parenti. In tal modo si vivrà come in una grande e solidale famiglia.

Il superamento della discriminazione di genere nello Stato ideale di Platone

 Nello Stato ideale delineato da Platone, l’abolizione dello spazio autonomo dell’óikos (parola greca che significa sia “casa” sia “famiglia”) richiede che, rispetto agli usi dell’epoca, che relegavano la donna nell’ambiente domestico e familiare, si individui una nuova collocazione delle donne nella società. È in questa prospettiva che Platone assegna loro un ruolo in tutto pari a quello dei maschi, affermando l’irrilevanza della differenza sessuale rispetto alla capacità di svolgere una certa funzione nella comunità.
In altre parole, la tripartizione delle virtù (saggezza, coraggio, temperanza) sulla base della quale è organizzato il corpo sociale non rispecchia alcuna distinzione di genere: della sapienza e del coraggio (che sono le rispettive prerogative dei governanti e dei guerrieri) sono fornite anche le donne. Pertanto, se adeguatamente educate, esse potranno rivelarsi dotate di qualità sconosciute, che consentiranno loro di dedicarsi alla guerra, alla medicina e alla stessa filosofia, fino a diventare «guardiane» della città.
Si tratta infatti di attività che devono essere attribuite tenendo conto non del genere, ma unicamente delle predisposizioni delle persone che dovranno svolgerle: «in tutto ciò che riguarda l’amministrazione dello Stato – dice Platone – non esiste operazione alcuna che si possa dire propria della donna in quanto donna, né dell’uomo in quanto uomo. Le attitudini naturali [per questo tipo di compiti] sono dunque ugualmente distribuite tra i due sessi, e la donna è naturalmente chiamata a partecipare a ogni funzione operativa così come l’uomo» (Repubblica, 455d d).

Emancipazione o rimozione?

Sulla base di quanto abbiamo detto, possiamo affermare che Platone delinei un progetto di emancipazione della donna? Siamo autorizzati a vedere in lui una sorta di pensatore femminista ante litteram, che prevede per le donne le stesse opportunità che sono concesse agli uomini?
La risposta è purtroppo negativa, poiché il progetto statalista di Platone, prevedendo il dissolvimento della dimensione privata e familiare in quella dello Stato, annulla e rimuove il valore specifico di tutto ciò che è estraneo alle regole e alle funzioni della vita comunitaria. Alla donna madre e sposa Platone sostituisce la donna «guardiana», e al capo famiglia, al quale le donne erano sottomesse, sostituisce lo Stato, ossia un nuovo “signore” che sceglie per loro lo sposo e la dimora, e che alleva la prole al loro posto. La conquista di un qualche accesso alla cittadinanza coincide per la donna con la perdita della sua specificità femminile.
Parificando le donne agli uomini, Platone ne annulla dunque la diversità. Non a caso nelle Leggi – un’opera più tarda, nella quale il filosofo ritorna ad attribuire alla famiglia una parziale autonomia rispetto allo Stato – egli riafferma la subalternità della figura femminile a quella maschile. Con la famiglia, che è il luogo in cui la donna è destinata naturalmente, riappare anche la subalternità femminile al maschio.
Nel matrimonio, che tutti i cittadini sono obbligati a contrarre e obbligati a sciogliere dopo dieci anni di eventuale sterilità, la donna deve essere sottoposta al controllo del marito. Ma il controllo familiare non è sufficiente, deve essere affiancato da quello dello Stato. Essendo «per natura più incline a nascondersi e all’astuzia», le donne possono essere elemento di deviazione e disgregazione sociale. La differenza di genere, vista nella Repubblica, almeno in parte, come frutto dell’educazione, torna come elemento di discriminazione e come giustificazione della subalternità femminile. Al di là di una qualche concessione fatta alle donne finalizzata soltanto al suo progetto politico, anche Platone, alla fine, non si sottrae al modello androcentrico che contraddistingue la cultura greca e l’assetto socio-politico di Atene.

La concezione della donna come castigo divino

È quanto emerge anche nel Timeo, in cui Platone riconduce la nascita della donna a un castigo divino. Narrando in forma mitologica l’origine del mondo, Platone racconta infatti che, tra i primi uomini, alcuni si rivelarono codardi e vigliacchi e, a causa di questa loro colpa, furono costretti a rinascere in un nuovo corpo adatto al loro carattere “difettoso”. Sulla scena del mondo comparve così una nuova creatura, la donna, quale incarnazione di un difetto – la mancanza di coraggio (in greco andréia) – che affliggeva i primi uomini.
Anche Platone dunque contribuisce a rafforzare la convinzione di un’inferiorità femminile. «Quella stessa certezza che, successivamente, senza più ambiguità e contraddizioni, venne teorizzata da chi rinchiuse definitivamente le donne nel cerchio della loro “naturale diversità”, vale a dire Aristotele» (E. Cantarella, L’ambiguo malanno. Feltrinelli, Milano 2023, p. 95).

La parità di genere come utopia

C’è un elemento, però, di straordinaria profondità e attualità nella riflessione politica di Platone che non può essere trascurato.
Nella riflessione platonica la discriminazione di genere affonda le sue radici nelle degenerazioni e nei difetti degli assetti sociali e politici, nell’ordine dell’essere, e non trova la sua giustificazione in un paradigma ideale, nell’ordine del dover essere. L’idea che esistono ruoli e funzioni che devono essere considerate proprie “della donna in quanto donna” (di solito quelli domestici o “di cura”), l’idea cioè che il ruolo sociale debba essere svolto sulla base di una condizione naturale è il cuore stesso della discriminazione di genere. Platone ritiene invece che i ruoli sociali siano distinguibili non sulla base di elementi naturali ma culturali ed educativi e, nell’utopia del suo Stato ideale, concede alle donne le stesse opportunità concesse agli uomini. Nell’«utopia», dunque, che etimologicamente (ou-tòpos) è il “non luogo” verso cui tendere, per il quale battersi, uomini e donne sono uguali e hanno identici diritti e identiche opportunità.

Sul tema della filosofia di fronte alla questione di genere si veda anche, dello stesso autore: Il Seicento, “secolo d’oro” delle donne.

 

L’avventura del pensiero
È tempo di filosofia

Il punto di vista espresso in questo articolo è stato adottato nei nuovi manuali di Nicola Abbagnano e Giovanni Fornero (con la collaborazione di Giancarlo Burghi) L’avventura del pensiero e È tempo di filosofia, Paravia 2025.

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Referenze iconografiche: Imageselect / INTERFOTO Sammlung Rauch    
Scena domestica, VI secolo a.C., pittura vascolare a figure nere