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Il valore del rispetto. Il cosmo greco e la prospettiva ecologica

Scritto da Maria Cristina Bertola | ott 24, 2022

Rispetto: una parola chiave

L’espressione “rispetto” si riferisce all’atteggiamento di riguardo e di deferenza verso una persona, della quale si riconoscono il valore e i diritti; verso un’istituzione civile o religiosa autorevole, o ancora nei confronti delle cose che le simboleggiano; allude però anche all’ossequio di una norma, di una legge, richiamando l’impegno etico nei confronti di un ordine di cui si riconosce la legittimità, la necessità o la sacralità.

Il concetto di rispetto nella cultura ellenica

Nell’antica Grecia il concetto di “rispetto” è appunto correlato a quelli di “ordine” e “armonia”, caratteri che vengono attribuiti innanzitutto alla natura, intesa come phýsis, totalità vivente e divina che include tutti gli esseri. Trasgredire l’ordine insito nell’universo, ignorando i confini imposti agli esseri umani, rappresenta per i Greci una grave tracotanza (hýbris), causa dell’ira degli dèi e della loro punizione (la némesis), finalizzata a ripristinare l’armonia violata.

Tale orizzonte di valori, testimoniato dai miti raccontati dai poeti, è profondamente radicato nella cultura ellenica e confluisce nelle riflessioni dei primi filosofi che alla natura volgono la propria attenzione indagandone l’arché, principio originario e legge di sviluppo dell’universo. Nonostante le diverse interpretazioni, in tutti i fisici presocratici è infatti presente l’idea di un ordine naturale, onnicomprensivo, di un “sistema” caratterizzato da un equilibrio perfetto, di cui gli uomini fanno parte e che sono tenuti a conservare, non soltanto per evitare la sventura, ma per realizzare pienamente il proprio essere.

Lo sviluppo di una sensibilità ecologica, in epoca recente, sembra debitrice di questa prospettiva: nella considerazione della natura vengono richiamati infatti l’idea di un sistema complesso di elementi che si influenzano reciprocamente, di un equilibrio efficace ma delicato, che occorre salvaguardare per evitare conseguenze disastrose per la biosfera terrestre.

L’hýbris e l’avidità degli esseri umani

L’idea di un ordine che presiede ai fenomeni dell’universo e alla vita degli uomini domina la poesia greca: in moltissimi luoghi dei poemi omerici emerge la convinzione che esista una giustizia (Díke) di cui gli dèi sono garanti e custodi, alla quale i mortali devono adeguarsi. Talvolta l’ambizione e l’avidità portano questi ultimi a eccedere e a trascendere i limiti imposti: la punizione che viene loro inflitta è allora inevitabile, in nome di una norma di misura e moderazione.

Paradigmatico è il caso di Tantalo, personaggio mitologico, figlio di Zeus e re di Lidia. Questi, ben accetto al banchetto degli dèi per la sua discendenza divina, si rende responsabile di diverse offese nei loro confronti, ad esempio il furto del nettare e dell’ambrosia, fonte di immortalità. Le divinità lo sprofondano nel Tartaro (luogo oscuro dell’oltretomba) dove per l’eternità è legato a un albero carico di frutti, vicino a una fonte di acqua limpida: affamato e assetato, appena prova ad avvicinarsi ai frutti vede i rami allontanarsi così come l’acqua ritrarsi lontano dalla sua portata. La sua avidità è punita con l’impossibilità perenne di soddisfare i suoi bisogni. Nell’Iliade, tra molti altri, è Agamennone a commettere hýbris: con la sua ostinata pretesa su Criseide, figlia del sacerdote di Apollo, incorre infatti nell’ira di quest’ultimo che scatena sugli Achei una terribile pestilenza.

Ecco che sciagure naturali, quali la carestia e la peste, vengono colte nell’immaginazione poetica come esito di atti di tracotanza degli esseri umani, frutto di avidità e smodatezza: viene meno il rispetto di un equilibrio, è infranta l’armonia sacra della natura.

La phýsis come armonia di legami: la visione dei filosofi presocratici

Ritroviamo questi valori nella prospettiva dei filosofi presocratici: se nel mito garanti dell’ordine universale erano le divinità, personificazione delle forze e dei fenomeni naturali, con la prima riflessione filosofica sono le leggi intrinseche alla natura, la phýsis (da phýein, “nascere”, “generare”), che presiedono all’eterno e armonico succedersi del ciclo cosmico e garantiscono il perpetuarsi della vita.

Per i pensatori antichi, al di là dell’apparenza, della molteplicità e della multiforme e caotica superficie della realtà, esiste qualcosa di coerente e armonico, che unisce e stringe gli esseri in unico destino. Per Talete è l’acqua, nelle cui trasformazioni egli vede l’elemento universale all’origine del tutto; per Anassimene è l’aria, che riempie i cieli ed è soffio vitale nel respiro umano; per Anassimandro è l’àpeiron, la sostanza infinita, animata da un eterno movimento che dà avvio al processo di separazione dei contrari; per Eraclito è il lógos, che stabilisce l’interdipendenza degli opposti; per Empedocle è l’eterno alternarsi di Amore e Odio per cui «non vi è nascita di nessuna delle cose mortali, né fine alcuna di morte funesta, ma solo c’è mescolanza e separazione di cose mescolate» (DK 31 B 8).

La phýsis è una nella sua complessità, ed è armonia di legami, relazioni, processi, in cui tutti gli esseri, compresi gli umani, risultano implicati e strettamente dipendenti gli uni dagli altri. Nell’essere umano agiscono le medesime leggi che presiedono al divenire dell’universo, ed egli è tenuto a comprenderle e a ossequiarle, infondendo nella sua azione quell’armonia che osserva nel cosmo. Di qui gli inviti etici alla moderazione, alla misura, al rispetto dell’equilibrio, da cui deriva la felicità. E se Anassagora esalta la capacità tecnica dell’essere umano, in grado, grazie al possesso delle mani, di modificare l’ambiente e di conformarlo alle proprie necessità, egli esorta anche alla saggezza nel servirsene, a una «riflessione prudente» (phronéin). Così pure Eraclito ricorda che «è stato dato a tutti gli uomini di conoscere sé stessi e di pensare saggiamente (sophronéin)» (DK 22 B 113 e 116), al fine di non oltrepassare i limiti della condizione mortale: «la saggia moderazione è la più grande delle virtù e la saggezza consiste nel dire la verità e nell’agire secondo la natura stando in suo ascolto» (22 B 112)1.

In quanto parte dell’essere e della phýsis, l’essere umano deve mettersi in suo ascolto, corrispondere al suo ritmo, assecondare le sue stagioni. Per questo Pitagora: «studiava attentamente i presagi, le profezie, gli áuguri e, in genere, tutti i segni che spontaneamente si mostrano. Offriva agli dèi incenso e mirra [...] non sacrificava animali» (Giamblico, Vita pitagorica, Laterza Roma-Bari 1990). La sua è un’indicazione a osservare la natura, conoscerla, entrare in sintonia con i suoi processi: ciò che è prelevato dall’ambiente, per assolvere le esigenze fondamentali, deve essere misurato dalla saggezza e restituito in termini di cura.

La civiltà occidentale e la rottura dell’equilibrio

Nella prospettiva greca che abbiamo descritto, tra uomini e ambiente non c’è separazione ma appartenenza, condivisione, scambio. Il rispetto scaturisce dalla consapevolezza di essere parte di un tutto, per cui ogni azione compiuta ha un riflesso su colui che la compie e deve quindi essere attenta e ponderata.

Nel suo sviluppo, la civiltà occidentale sembra essersi allontanata da questo ideale, arrivando oggi a un punto di rottura. Tra la fine del secolo scorso e gli anni Duemila l’esito dell’impatto delle attività umane sull’ambiente è diventato addirittura allarmante. Il progresso tecnologico ha incentivato il processo di industrializzazione, che ha portato a uno sfruttamento sempre più indiscriminato delle risorse naturali; la globalizzazione economica ha esteso a tutto il mondo i problemi legati alla meccanizzazione, all’agricoltura intensiva, all’impiego di pesticidi e fertilizzanti. Si è ampiamente superato quel confine del rispetto che regolava le attività delle società antiche, per legittimare uno sfruttamento illimitato dell’ambiente naturale. Quest’ultimo è stato visto non più come un cosmo, che include gli umani, ma come una realtà separata, un serbatoio di beni, energie e risorse cui attingere indefinitamente in un’ottica antropocentrica volta al dominio. Una prospettiva autodistruttiva come dimostrano ampiamente gli studi scientifici più recenti2.

Ricorrendo all’immaginario poetico antico, potremmo interpretare la situazione attuale come l’esito di un atto di hýbris da parte degli esseri umani, spinti dall’avidità e dall’ambizione a infrangere l’equilibrio naturale, da cui peraltro dipende la loro stessa esistenza. Per questo, nel nuovo millennio ci troviamo a dover affrontare con assoluta impellenza emergenze gravi e globali, che minacciano la nostra stessa sopravvivenza, dalla riduzione della biodiversità, alla scarsità di risorse idriche, al riscaldamento globale, all’inquinamento dei mari, delle acque e dei terreni.

La prospettiva ecologica: la responsabilità etica nei confronti della natura

A fronte dei disastri ambientali (cresciuti in modo esponenziale a partire dalla rivoluzione industriale del XVIII secolo), è soltanto dagli anni Sessanta del Novecento che l’umanità ha cominciato a porsi seriamente il problema delle conseguenze della propria azione sull’ambiente: per molto tempo si sono evidenziati soprattutto i vantaggi della crescita industriale – e gli innegabili risvolti positivi in termini di maggiore benessere materiale della popolazione mondiale –, trascurando però i danni che essa causava al mondo naturale. Questa presa di coscienza ha condotto allo sviluppo dell’ecologia, una disciplina che si propone di studiare l’ambiente, inteso come la “casa comune” dell’essere umano e degli altri viventi (il termine – coniato dal biologo tedesco Ernst H. Haeckel nel 1866 – deriva dal greco óikos, “casa”, e lógos, “discorso”).

L’ecologia ha maturato una coerente prospettiva interpretativa, che per alcuni aspetti sembra rievocare e riattualizzare l’antica concezione greca della natura. Centrale, in essa, è infatti la nozione di “ecosistema”, che costituisce l’unità ecologica fondamentale, formata da una comunità di organismi viventi in una data area e dallo specifico ambiente fisico con il quale tali organismi sono legati da complesse interazioni e scambi di energia e di materia. Ne deriva una visione dell’ambiente come di un sistema complesso di elementi che si influenzano reciprocamente e che dipendono gli uni dagli altri; un sistema in “equilibrio”, in cui le varie componenti si bilanciano e cooperano nel garantire il ciclo vitale.

Tale visione porta con sé due conseguenze significative. Non possiamo conoscere le cose e gli organismi senza porli in relazione al contesto in cui si trovano, in un rapporto dinamico e inscindibile con altre cose e altri organismi. Allo stesso modo, non possiamo considerare le attività umane come estranee, indifferenti e irrilevanti rispetto alle dinamiche naturali: ogni azione umana influisce sull’ecosistema così come ne dipende e ne è influenzata, perché, come dicevano i Greci, siamo parte del mondo e contribuiamo dall’interno alla sua trasformazione e al suo sviluppo.

Il pensiero ecologico comporta dunque un richiamo ai valori e alla responsabilità etica nei confronti della natura, che è venuta meno con l’affermarsi onnipervasivo della civiltà industriale e tecnologica, nella quale l’essere umano è considerato un agente esterno rispetto a un ambiente inerte e inanimato, e il mondo naturale è addirittura ridotto a risorsa per gli esseri umani.

Edgar Morin e l’unità della biosfera terrestre

Uno tra i primi pensatori a occuparsi di ecologia in questi termini è il filosofo e sociologo francese Edgar Morin (nato nel 1921). Nel suo libro La vita della vita (1980) riconosce come il pensiero ecologico sia estremamente difficile, perché «contraddice principi radicati in noi fin dalla scuola elementare, quando ci insegnano a fare separazioni e scissioni nel tessuto complesso del reale». A suo avviso, siamo infatti condizionati da una «visione segmentata delle cose», abituati a pensare l’individuo separato dal suo ambiente e dal suo habitat. Il pensiero sperimentale, su cui si è fondata la cultura scientifica occidentale e che ha consentito lo sviluppo della civiltà industriale, ha come “dis-ecologizzato” le cose: ha estrapolato i corpi dai loro ambienti naturali, li ha posti in ambiti sperimentali, impedendo di scorgere la loro vera essenza; ha inaugurato in altre parole un progetto di possesso e conquista della natura, svuotandola della vita. Si tratta però di una visione del mondo che si è rivelata distruttiva per la biosfera (l’insieme delle zone della Terra in cui le condizioni ambientali consentono lo sviluppo della vita, in greco bíos).

La concezione della natura come unicum cui guarda l’ecologia evoca il cosmo greco e lo sguardo dei filosofi naturalisti: emerge il medesimo rispetto etico, perché se siamo consapevoli di essere parte di un unico equilibrio cosmico siamo portati ad averne cura; ma emerge anche il medesimo rispetto conoscitivo, l’idea che la natura, se colta nella sua integrità e complessità, possa insegnare agli esseri umani modelli di condotta e di organizzazione efficaci e creativi, cui adeguarsi per salvaguardare la vita sulla Terra.

Paradigmi alternativi: l’ecosofia

Le molteplici iniziative messe in campo dalle istituzioni internazionali in vista della transizione ecologica e della lotta al cambiamento climatico – coerentemente con le indicazioni dell’Agenda 2030 approvata dall’ONU nel 2015 – sono indice di una più diffusa sensibilità ambientale e di una seria volontà di cambiamento in direzione della sostenibilità. Tuttavia, tra gli studiosi sono in molti coloro che ritengono ancora insufficiente e inadeguato l’impegno in tal senso da parte degli organismi politici, e soprattutto insufficiente la coscienza ecologica dell’opinione pubblica mondiale. La battaglia in difesa dell’ecosistema terrestre riguarda infatti le istituzioni ma coinvolge anche i singoli individui, chiamati a modificare abitudini quotidiane consolidate e ad aprirsi a una visione del mondo alternativa rispetto a quella consumistica prevalente.

È questa ad esempio la convinzione dei sostenitori dell’“ecosofia”, un indirizzo di pensiero inaugurato dal filosofo norvegese Arne Naess (1912-2009) nei primi anni Settanta del Novecento, secondo cui per poter superare la crisi ecologica occorre un vero e proprio cambiamento di paradigma culturale. Ciò significa per Naess che l’umanità deve mutare la visione del mondo radicata nella società occidentale (a partire dalla rivoluzione scientifica del XVII secolo), fondata sulla concezione della natura come macchina, sul progetto di dominio e di sottomissione del mondo, sulla spinta irrefrenabile verso la produzione e la crescita economica.

Attingendo alle antiche tradizioni orientali e alla filosofia greca, l’ecosofia teorizza l’identità tra l’Io e la Natura, l’anima (o spirito) individuale e quella cosmica, considerati come una cosa sola, elementi di un unico sistema vivente. Tale identificazione, come spiega Naess, ha un’implicazione etica fondamentale:

Il rispetto fluisce in modo naturale se l’Io viene ampliato e approfondito cosicché la protezione della natura è percepita e concepita come protezione di noi stessi. Proprio come non abbiamo bisogno di nessuna morale che ci faccia respirare, così se il tuo io in senso ampio abbraccia un altro essere, non hai bisogno di alcuna esortazione morale per mostrare rispetto. Hai rispetto di te stesso senza sentire nessuna pressione.

(A. Naess, in F. Capra, La rete della vita, trad. it. di C. Capararo, BUR saggi, Milano 2014)

Abbracciare il punto di vista dell’ecosofia significa dunque operare una rivoluzione innanzitutto esistenziale, passare da una visione egocentrica/antropocentrica, che pone l’io e l’essere umano come centro e fonte di tutti i valori, a una cosmocentrica, che riconosce il valore intrinseco di tutti gli esseri viventi e considera gli umani «come un filo particolare nella trama della vita». Un simile punto di vista porta con sé l’idea della compassione – nel senso etimologico del “sentire insieme” (dal latino cum patior) –, cioè dell’empatia con gli altri esseri. Veniamo al mondo in una rete di rapporti e ne siamo dipendenti: dobbiamo essere consapevoli di tale condizione, sentirne la presenza e la responsabilità.

Il cambiamento di paradigma comporta anche un modo diverso di intendere e di vivere il rapporto essere umano-natura, che Naess definisce «ecologia profonda»: essa implica non soltanto un impegno circoscritto per “difendere” l’ambiente («ecologia superficiale»), ma la capacità di sentirsene parte integrante, rendendosi disponibili a scelte radicali come quelle di circoscrivere la presenza e l’«interferenza» umana, lasciare spazio alle altre specie e ai loro habitat per preservare la diversità, misurare le attività e produzioni umane in relazione e in consonanza con gli equilibri naturali, soprattutto locali, vivere secondo principi di sobrietà e misura, apprezzare la qualità e intensità dell’esistenza piuttosto che perseguire «un tenore di vita sempre più alto» (A. Naess, Introduzione all’ecologia, ETS, Pisa 2015). Significa, ancora una volta, avvicinarsi all’idea greca del rispetto e della necessaria attenzione per la natura, ponendosi nuovamente in suo ascolto:

Alla lunga, per partecipare con gioia e con tutto il cuore al movimento dell’ecologia profonda, bisogna prendere la vita molto seriamente. Chi mantiene un basso tenore di vita e coltiva un’intensa, ricca, vita interiore, riesce, meglio di altri, ad avere una visione ecologica profonda e ad agire di conseguenza. Mi siedo, respiro profondamente e sento esattamente dove sono.

(Arne Naess, in B. Devall-G. Sessions, Ecologia profonda, EGA - Edizioni Gruppo Abele, Torino 1989)

Referenze iconografiche: ParabolStudio/Shutterstock